Yemen, una guerra dimenticata
Oltre seimila morti, 2,5 milioni di sfollati, abusi, crimini di guerra. Ospedali, scuole, fabbriche e campi profughi bombardati. Oltre 1.000 bambini uccisi nei raid e oltre 740 morti nei combattimenti. È lungo l’elenco dell’orrore in Yemen. Da un anno esatto nessun obiettivo civile viene risparmiato. «Una catastrofe umanitaria senza precedenti», ha scandito di recente Stephen O’Brien, vice segretario per gli affari umanitari delle Nazioni Unite.
Eppure, anche oggi, nei giorni in cui cade l’anniversario dell’inizio del conflitto non sono in molti a dedicare spazio e attenzione a questa carneficina. Non importa che lo Yemen occupi una posizione strategica controllando una parte dello stretto di Bab el Mandeb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden da cui transitano le petroliere. Non influenza il dibattito pubblico la presenza, dentro i confini di questo Paese, del santuario di Aqap, la più potente fazione di Al Qaeda, fonte di instabilità in tutto il mondo esattamente quanto Isis. Non interessa nemmeno che su questo terreno di scontro si giochi una partita delicatissima tra due potenze come l’Iran e Arabia Saudita. O, ancora, che il Pil yemenita, considerato già il più povero del Medio Oriente prima dell’inizio della guerra, sia diminuito nell’ultimo anno del 35 per cento e che in dodici mesi di combattimenti un quarto delle aziende abbia chiuso. Questa guerra dimenticata, pur consumando giorno dopo giorno una culla della civiltà, non sembra smuovere le nostre coscienze.
Il conflitto ufficialmente è iniziato tra il 25 e il 26 marzo del 2015. Da quella notte gli aerei dell’Arabia Saudita, sostenuti da una coalizione di altri otto Paesi arabi, bombardano senza sosta le postazioni dei ribelli sciiti houthi, arroccati nel sud del Paese. Come denuncia da tempo Amnesty International, i raid colpiscono in modo indiscriminato la popolazione. La vita oggi in Yemen è impossibile: acqua corrente ed elettricità scarseggiano, il cibo non si trova, il prezzo della farina è quadruplicato. «I miei figli percorrono ogni notte chilometri per arrivare alle sorgenti. Camminano nel buio per non essere colpiti dai raid», ha raccontato un testimone di nome Mohammed alle Nazioni Unite. «Ogni giorno vado al lavoro ma vivo nell’angoscia per la mia famiglia quando sento il rombo degli aerei arrivare», ha spiegato Abdullah. Come Abudllah e Mohammed, l’82 per cento degli yemeniti ha bisogno di assistenza umanitaria per poter sopravvivere.
Per comprendere le cause del conflitto bisogna però andare indietro negli anni. Dopo la breve primavera yemenita, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, il presidente Ali Abdullah Saleh (alla guida del Paese da oltre trent’anni) ha lasciato il potere. La sua caduta, avvenuta su pressione dei Paesi del Golfo e in particolar modo dell’Arabia Saudita, ha ridato vita alle forze centrifughe del sud del Paese. Mentre le Primavere arabe infiammavano tutto il Medio Oriente, i ribelli houthi sono tornati sulla scena.
Il nuovo presidente Abdel Rabbo Monsour Hadi, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Egitto oltre che dai Paesi del Golfo, non è mai riuscito a prendere del tutto il controllo del Paese né ad avviare le riforme promesse. Dal 2011 in poi gli houthi, appoggiati dall’Iran e frustrati nelle loro inascoltate richieste di autonomia, hanno dato il via a una serie di proteste per chiedere la sua cacciata. Questo stato di instabilità ha portato l’Arabia Saudita a optare per l’intervento militare, mettendosi alla guida di una coalizione guidata dagli Stati del Golfo, dalla Giordania, dall’Egitto, dal Marocco e dal Sudan e mettendosi alla guida di una coalizione di cui fanno parte gli Stati del Golfo, la Giordania, l’Egitto, il Marocco e il Sudan . Inoltre il presidente Hadi nel marzo scorso ha dovuto abbandonare la capitale Sana’a, caduta sotto il controllo dei ribelli. E ora si trova ad Aden – da cui gli houthi si sono ritirati – nel Sud del Paese dove imperversano diverse milizie.
A far sperare in una tregua, per il momento, sono solo i fragilissimi negoziati che potrebbero portare a un cessate il fuoco, il 10 aprile e ai colloqui di pace che dovrebbero iniziare il 18 in Kuwait. Ma è chiaro che finché nessuno metterà un freno agli appetiti delle potenze regionali (l’Iran da una parte e i sauditi dall’altra, sostenuti e armati tra l’altro dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna) e alla presenza di Al Qaeda nella regione, sarà difficile per lo Yemen iniziare una vera ricostruzione uscendo dall’elenco, ormai sempre più lungo, degli Stati falliti.
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