Via Diaz 25, Erba. Rientra la vita
A Erba, in via Diaz 25 c’è quella casa, al primo piano di una corte ampia: giallo pallido l’intonaco, verdi le persiane, spessi i muri. Una corte lombarda, con le tendine alle finestre e i vasi di
gerani sul davanzale. La strage dei vicini della porta accanto non avrebbe potuto avere un teatro più rassicurante, quasi banale. Ma dopo l’11 dicembre di due anni fa, via Diaz 25 non era più la stessa. Passando, chi veniva da fuori si fermava a guardare il cancello, incredulo di ciò che era avvenuto in quel bentenuto cortile; chi era del paese invece sembrava camminare più in fretta, come non volendo ricordare. Di domenica e di festa capitava, come capita a Cogne, che dei curiosi arrivassero in uno stordito pellegrinaggio, a vedere coi propri occhi la casa maledetta. E dunque nella geografia della piccola città operosa la casa di Raffaella Castagna restava, con le sue stanze vuote e mute, una presenza sottilmente opprimente tra le altre, dove invece andava e veniva gente, risuonavano voci, giocavano bambini. Come una pietra, la casa del delitto, nel cuore di Erba. Ora l’appartamento, si è saputo dopo la sentenza, verrà regalato dai Castagna a un’associazione benefica. Vuotato dei tristi resti sopravvissuti alle fiamme, ripulito delle tracce lasciate dalla polizia scientifica, liberato dai sigilli del sequestro giudiziario, verrà imbiancato, e tornerà a essere abitato. Che sia un centro d’ascolto, o un tetto per madri sole, comunque si riempiranno di nuovo quelle stanze, di voci e di vita. Non è semplicemente un gesto di beneficenza. C’è, in questa scelta, un’ansia ostinata e fedele di ricominciare. Quelle donne e quel bambino sono morti. Chi li amava è segnato per sempre. E però qualcuno in casa Castagna – forse il padre, l’uomo che pure annientato parlava di perdono, e veniva guardato come un folle – dà il segno di un volere andare oltre. Non per dimenticare, che è una cosa impossibile, ma per vivere ancora. Per non restare inchiodati e immobili a ciò che è stato: prigioniere le stesse vittime del male subìto, in una memoria che strozza i passi, e il respiro. Sarebbe stato umano, magari, voler conservare intatte e uguali quelle stanze, tenersele come un antro di privato dolore e non volerle più aprire; oppure venderle, come ci si disfa in fretta di qualcosa di cui si ha paura e orrore. Il regalarle a chi le riapra con generosità è invece l’unico antidoto all’aura macabra che quei locali avrebbero altrimenti conservato. In via Diaz due anni fa sono esplose le tenebre, con una ferocia inspiegabile nei futili motivi che apparentemente l’ hanno covata. Qui è stato massacrato un bambino. L’ergastolo, probabilmente, segnerà la sorte degli assassini – ma altrettanto forse era già segnata Rosa Bazzi dalle parole inesorabili di sua madre («è sempre stata cattiva, cattiva come una vipera»). Nella cappa plumbea su quelle quattro stanze di via Diaz, dove la gente, il giorno che i due confessarono, si affollava mormorando fredda: «Dovrebbero impiccarli», tutto sembra configurare la vittoria del male. Eppure, la scelta di quel padre che in tanti hanno guardato sbalorditi quando parlava di perdono, non è sottomessa a questo giogo. Non si terrà quelle mura come un mortifero mausoleo; non le venderà in fretta al primo disposto a ignorarne i fantasmi. La regala, a chi ne faccia qualcosa di buono; perché qualcuno ci viva, ci torni a sperare. Sasso lanciato oltre, più lontano, contro l’inerzia greve del male; come un non voler lasciare al male l’ultima parola. La pietra immobile nel centro di Erba si scioglierà, negli anni. Forse un giorno un ragazzo si affaccerà da quelle finestre, chiamato da un compagno sudato in cortile: corri giù, dai, sbrìgati, che giochiamo a pallone.
Rassegna Stampa
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