Una vita “grande”: la meta da non svuotare
«Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa, nella sua vastità e bellezza». Nel messaggio per la giornata mondiale della gioventù Benedetto XVI si guarda indietro e racconta com’era lui, a vent’anni. Certo, riconosce, la sua era una generazione cresciuta prigioniera del nazionalsocialismo e della guerra; e però quell’ansia di vita andava oltre la contingenza storica: «La gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande».
La vita, più grande. Non ce ne ricordiamo anche noi, non leggiamo ancora negli occhi dei figli quindicenni quelle domande: perché si vive, per andare dove? In quell’età in cui tutto – forza, curiosità, desiderio – sembra un arco teso per lanciare la freccia lontano. Quando ancora i ragazzi portano come scritto addosso un’altra tensione, magari confusa, o utopistica; desiderio, però, di «vita più grande ». E si è abituati, nelle case borghesi, a sorridere di queste febbri adolescenziali come di una malattia infantile, che passa. Massì, sogna pura di vincere la fame nel mondo, o di salvare il pianeta dall’inquinamento. Poi, passa: vedrai, ne parliamo fra vent’anni.
Allora l’attesa della «vita più grande» è un sogno vuoto? No, scrive il Papa, «l’uomo è veramente fatto per ciò che è grande, per l’infinito». Come dicesse ai figli che hanno ragione loro, a volere una vita più piena che non quella abitudine stanca cui spesso vedono ridotti i padri. Ma dunque, possiamo domandarci, chi ha ragione? Immaginiamo di interrogare i milioni di lavoratori che ogni sera su treni e metrò rientrano a casa nelle nostre città: allora, che ne è della vita più grande che sognavate a quindici anni? Molti risponderebbero con un sorriso amaro: sciocchezze, direbbero, la vita è un posto fisso, se sei fortunato; è un matrimonio, routine, figli che se ne vanno, e poi, invecchiare. Tranne magari, aggiungerebbero, che per alcuni, belli, o ricchi, e famosi; ecco sì, direbbero, quelli sono chiamati a fare cose grandi, ma è roba per pochi, scelti a caso dal destino. (E proprio a questa lotteria non si affidano forse i ragazzi che affollano le selezioni del Grande Fratello? Anche questo, distorto, non è il desiderio di essere diversi, eccezionali, salvati da un anonimo destino?).
Eppure, siamo fatti davvero per una vita più grande. Non è sogno né malattia infantile la domanda degli uomini, a quindici anni. Siamo fatti per l’infinito, dice il Papa: «Qualsiasi altra cosa è insufficiente ». Difficile, dirlo a dei ragazzi che naturalmente, e oggi più che mai, sono portati a credere che la felicità sia una questione di roba, di cose da possedere. Ma difficile sempre, per ogni generazione di cristiani, testimoniare, oltre la fatica e il tempo, che la vita è una vocazione, e che il senso, e dunque la pienezza, è rispondere a quella vocazione (quasi una bestemmia poi questa, nell’epoca in cui gli uomini si affermano di se stessi padroni).
Una vita ‘più grande’, cos’è? Non è fare cose necessariamente eccezionali, ma ciò a cui si è chiamati da un Dio vicino, che ci conosce ciascuno, dice il Salmo, «fin dalle viscere materne». Dentro a questa certezza ha un valore infinito la vita del casellante solo nel suo casotto, fra mille auto sconosciute – la vita ‘oscura’ che spaventa i fan del Grande Fratello. Dentro a questa fedeltà, può accadere che una donna piccola, secca, apparentemente una creatura da nulla, diventi madre Teresa di Calcutta.
Siamo fatti davvero per ‘la vita grande’, anche se crescendo ce lo dimentichiamo. Vorremmo almeno ricordarlo, nella fatica di ogni giorno, abbastanza per non sorridere dei nostri figli quindicenni – per non abbatterli a terra con la nostra abitudine al poco. Non è questo il fiato antico che manca alle città d’Occidente? Saper dire ancora: vai, studia, lavora; innamorati, sposati, abbi dei figli, fai fatica. L’ansia che hai addosso, è vera; parti, ma vai, come si diceva un tempo ai viandanti, con Dio – lungo la sua strada.
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