«Un anno dopo quella notte. Dalla fede la forza di vivere»
La ferita che si è aperta l’11 dicembre 2006 sanguina ancora. E la cronaca di questi giorni impedisce che si rimargini. È stato un anno tutto in salita, per Carlo Castagna: la moglie Paola, la figlia Raffaella e il nipotino Yousef barbaramente uccisi, il giallo di una strage che solo dopo un mese – con la confessione di Rosa e Olindo Romano – ha trovato una soluzione, ma sul quale gravano ancora alcuni misteri. E nei giorni scorsi, un’altra pugnalata: l’arresto del genero, Azouz Marzouk, accusato di essere coinvolto in un traffico di droga che sarebbe continuato anche dopo il delitto, poi la divulgazione di intercettazioni telefoniche che gettano ombre inquietanti sulla vita personale del tunisino. Carlo Castagna è un uomo che ha dovuto ripetutamente fare i conti col dolore, come testimoniano il suo viso pallido e scavato e i grandi occhi che a tratti, durante il nostro incontro nella sua casa di Erba, si velano di un’incontenibile commozione. Ma è anche un uomo capace di guardarlo in faccia, quel dolore devastante, senza maledire il destino che gli è toccato in sorte. Lo guarda in faccia e vuole capire se tutto questo ha un senso, e che senso ha. Vive le sue giornate sorretto da una solidità umana che non può lasciare indifferente chi lo incontra e che, dice, ha una sola sorgente: la fede cristiana a cui è stato educato, in cui è cresciuto e che ha trovato nuovo vigore nella tragedia di cui è vittima e protagonista. Percosso e fiero, accetta di parlare di una vicenda che ha scosso l’Italia intera ma che per la maggior parte dei media è diventata materia prima per articoli e trasmissioni che s’inchinano alla logica del sensazionalismo o del gossip. È appena tornato dalla messa nella chiesa prepositurale di Erba, a cui partecipa ogni mattina. «Non posso farne a meno: l’Eucarestia è l’alimento che tiene in piedi la mia vita e ogni mia giornata», dice camminando nel corridoio con i muri tappezzati di quadri e fotografie dei suoi familiari: Paola, Raffaella, Yousef, i figli Beppe e Pietro. I quadri più recenti sono tre bozzetti con le tombe della figlia e del nipote, che lui stesso ha dipinto dopo la visita al cimitero di Zaghouan, in Tunisia, dove era tornato pochi giorni fa per rendere omaggio ai suoi cari.
Chi la incontra rimane stupito per la sua forza d’animo, per la serenità con cui ha affrontato il cumulo di sofferenze che le è piovuto addosso. Signor Castagna, come fa?
Non è roba mia, non viene da me. Viene da lassù: mia moglie è una presenza viva che mi fa compagnia ogni giorno. Fare memoria della sua figura di moglie, di madre, di donna appassionata a Gesù e che si è donata al prossimo senza risparmio, è una molla per continuare a vivere con quella fede che lei mi ha testimoniato in 36 anni di matrimonio. Paola ha sempre affrontato la vita a viso aperto, anche quando aveva i contorni di alcune gravi malattie che hanno colpito la nostra famiglia, o delle sofferenze che accompagnano l’esistenza. Mi ha insegnato che il buio bisogna guardarlo in faccia, per scoprire che in fondo al buio c’è la verità delle cose, c’è la luce di Dio. Adesso lei vive dentro quella luce, la luce del Paradiso: questa certezza consola il mio dolore e mi dà l’energia per guardare in faccia il buio.
Lei ha perdonato gli assassini. Qualcuno aveva espresso perplessità per quel perdono che è sembrato «troppo veloce», quasi innaturale…
Non voglio passare per un marziano. Il perdono non cancella il dolore, e neppure lo attenua. Guardi che io non m’invento niente, cammino su strade già battute da altri prima di me. La disponibilità a perdonare nasce dall’educazione che ho ricevuto dai genitori, dai nonni, dai nostri vecchi: gente che non aveva grande cultura, ma con una fede che scorreva nelle vene come il sangue. La mattina dopo la strage mia suocera Lidia, 85 anni, mi disse: «Carlo, chiunque sia stato dobbiamo perdonare. Il Signore ci ha messo davanti la croce, dobbiamo stenderci sopra le braccia».
Mia moglie e io avevamo sempre in mente una frase scritta sulla facciata della chiesa di un paese qui vicino, Cucciago, riferita alla croce: «Se mi accogli ti sorreggo, se mi rifiuti ti schiaccio». Contiene una grande verità. Le prime vittime di questa storia sono gli assassini, vittime di un disegno diabolico che non li lascerà in pace. Il perdono non è frutto del buonismo, che prima o poi finisce, né della mia bravura: è un dono che Dio ci dà perché la vita possa ricominciare. La vita non ci appartiene, non è roba nostra, è roba di un Altro. E il sottoscritto, proprio nei giorni della strage, ne ha avuto due misteriose ma concrete conferme.
A cosa si riferisce?
Qualche giorno prima di quell’11 dicembre 2006 sono scampato per un attimo a un incidente stradale che poteva essere fatale. Mentre uscivo dal mio ufficio per andare in auto a Milano ebbi uno strano presentimento: «Chissà se stasera rivedrò questo posto ». Fu come un lampo sinistro, che ho subito rimosso. La sera, sulla strada del ritorno verso Erba, un furgone mi ha tagliato la strada a un incrocio e solo sterzando d’istinto ho evitato che mi centrasse in pieno.
E il secondo episodio?
La sera del delitto mia moglie era andata a trovare Raffaella e Yousef. Dovevo esserci anch’io, ma per un contrattempo non andai. Se fossi salito in quella casa, sarebbe stata la fine anche per me: dalle intercettazioni risulta che Olindo Romano si rammaricò per la mia assenza, dicendo che io ero «il più bastardo di tutta la famiglia ». E poi c’è un altro fatto che assomiglia tanto a una premonizione e riguarda mia moglie.
Quale?
Tutte le mattine con Paola recitavamo le preghiere delle lodi. Il 4 dicembre, una settimana prima del delitto, lei tracciò un segno di matita a fianco di una frase del salmo 83: «Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio». Qualche giorno dopo la sua morte, trovai nel breviario, a fianco dell’indice, una scritta fatta quasi certamente quella stessa mattina: «Alla mia morte sugli annunci e sulle immaginette». Lei era un tipo così: certa che l’esistenza è nelle mani di un Altro, e che nel riconoscere che dipendiamo da Dio sta la vera statura dell’uomo. Capisce perché dico che la mia Paola mi sta dando l’energia per campare?
Azouz Marzouk, suo genero, è in carcere con l’accusa di spaccio di droga. E alcune intercettazioni gettano un’ombra inquietante sui suoi comportamenti anche dopo la strage. Cosa prova nei suoi confronti?
Gli inquirenti facciano il loro lavoro, non voglio giudicare nessuno. Ma certamente quello che è accaduto mi addolora. Io e i miei figli speravamo che Azouz avesse deciso di cambiare strada, sia per onorare con una vita migliore che in passato la memoria del figlio e della moglie, che con lui era stata generosa e gli aveva testimoniato in mille modi il suo amore, sia perché lui ha proprio bisogno di ricominciare una nuova esistenza. Anche dopo che era uscito dal carcere grazie all’indulto, nell’agosto 2006, la mia famiglia ha provato ad aiutarlo cercando alcune possibilità di lavoro, ma lui ha scelto strade apparentemente più redditizie e meno faticose.
Si era parlato di una conversione di sua figlia all’islam dopo il matrimonio con Azouz Marzouk…
Su questo, come su altri argomenti, sono state scritte e dette tante cose senza fondamento, ma non posso passare le mie giornate a smentire giornali e televisioni. Le racconto un episodio rivelatore: l’8 dicembre dell’anno scorso, festa dell’Immacolata, Raffaella venne a pranzo a casa mia. Stavamo guardando la tv, quando il Papa impartì la benedizione si fece un grande segno di croce. Le sembra il gesto di una musulmana?
Il Papa ha scritto un’enciclica sulla speranza. Dopo quello che le è capitato, lei continua a sperare? In cosa spera?
Spero di restare sereno in compagnia di questo grande dolore, e prego perché non si esaurisca la forza che Dio mi sta dando attraverso Paola, Raffaella e Yousef. Spero di ritrovarli un giorno e di sedermi accanto a loro nel banchetto celeste. È una speranza, ma una speranza certa.
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