Turchia al passo di lumaca. La piena libertà può attendere
Era una vergogna mantenerlo, ma ci voleva troppo coraggio per abolirlo. Stiamo parlando del famigerato articolo 301 del Codice penale della Turchia che in questi anni ha limitato gravemente la libertà d’espressione dei suoi cittadini prevedendo il carcere per “chiunque recasse offesa all’identità turca”. Il parlamento di Ankara ha optato per la più classica delle mezze misure: l’ha semplicemente modificato, sostituendo il concetto di “identità” con quello di “nazione”, riducendo la pena massima da tre a due anni di prigione e togliendo (questo il cambiamento più sostanziale) la discrezionalità ai singoli magistrati che d’ora in avanti dovranno ottenere l’autorizzazione del ministro della Giustizia per aprire il procedimento penale.
Una cinquantina di giornalisti e scrittori fino ad oggi sono finiti alla sbarra, processati e additati al pubblico ludibrio in base all’articolo 301. C’è chi se l’è cavata con qualche seccatura, come Elif Shafak, l’autrice del “Bastardo di Istanbul”. Chi ha dovuto fuggire all’estero, come il Premio Nobel per la letteratura Ohran Pamuk. Chi è finito in galera come lo storico Taner Akcam. E chi, dopo una serie di accuse infamanti, è stato freddato da un killer come è capitato al giornalista armeno Hrant Dink, il fondatore della rivista “Agos”, ucciso sulla porta della sua redazione. Tutti in qualche modo colpevoli di un reato d’opinione che ad Istanbul e dintorni è considerato un insulto, anzi un crimine: aver fatto cenno al genocidio degli armeni del 1915.
Non è un caso che la riforma del codice penale sia stata approvata ieri dal parlamento turco tra le feroci critiche dell’opposizione nazionalista ed anche dello schieramento laico, i cui esponenti, i deputati del CHP (Partito repubblicano del popolo) hanno votato contro. A conferma che oggi in Turchia il più acerrimo nemico delle riforme, sia pur condotte con grande cautela, non è l’islamismo moderato del capo del governo Erdogan bensì il laicismo antiquato dei militari e dei giudici, gli stessi che vorrebbero mettere fuori legge l’AKP, il partito della Giustizia e dello Sviluppo uscito trionfatore dalle elezioni dell’estate scorsa. Sarebbe come metter fuori legge il popolo, secondo la vecchia massima di Bertold Brecht.
In questo quadro denso d’incognite la riforma dell’articolo 301 rappresenta un piccolo, timido passo in avanti sulla strada di quelle riforme che dovrebbero portare a compimento la democrazia turca. Ne ha preso atto con parziale soddisfazione l’Unione Europea secondo cui “è necessario ora modificare altri articoli del codice penale per garantire piena libertà d’espressione a tutti i cittadini”. Da quando, sei anni fa, sono andati al potere gli islamici moderati di Erdogan, la Turchia ha iniziato la sua faticosa marcia d’avvicinamento all’Europa abolendo la pena di morte, riconoscendo la lingua della consistente minoranza curda, riformando il codice militare e ultimamente anche quello penale. Ma resta ancora molto da fare, prima di tutto per quanto riguarda i diritti delle minoranze religiose, non garantite da uno status giuridico e non protette in modo adeguato dagli attacchi di estremisti fanatici che in questi ultimi anni hanno preso di mira missionari e sacerdoti stranieri.
La Turchia spera di entrare nell’Unione Europea nei prossimi dieci-quindici anni. Ma di questo passo, tra le cautele dei riformisti e le minacce dei nazionalisti, ce ne vorranno cento di anni prima che gli eredi della Sublime Porta riescano a varcare quella europea.
Rassegna Stampa
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