Sui neonati « grandi prematuri » confronto che ci riguarda
Sui neonati « grandi prematuri » confronto che ci riguarda
Grandi prematuri: quasi un ossimoro per indicare bambini piccolissimi, nati poco oltre la metà della gravidanza, destinati a morte certa fino a pochi anni fa, con sempre più speranze di sopravvivere man mano che scoperte scientifiche e sviluppi tecnologici mutano la prassi medica.
Ce ne ha parlato spesso su queste pagine il neonatologo Carlo Bellieni, spiegandoci che la probabilità di sopravvivenza a 22 settimane di gestazione è oramai del 10%, e aumenta con il procedere delle settimane di gestazione.
C’è dibattito fra gli specialisti del settore, per stabilire se esiste e quale sia la soglia al di sotto della quale non tentare alcun intervento sul piccolo nato, per evitare trattamenti inutili e sproporzionati. Quello delle 22 settimane, al momento, sembra essere il limite della sopravvivenza al di fuori del grembo materno. Ma la piccola Amilla Taylor, nata pochi giorni fa a Miami a 21 settimane, è lì a dimostrare la possibilità dell’impossibile, o la facilità con cui si possono sbagliare i calcoli sulla settimana gestazionale.
Quali che siano i criteri che gli addetti ai lavori sceglieranno per decidere quando intervenire sui piccoli nati, dunque, sarà opportuno innanzitutto che non siano astrattamente rigidi ma lascino aperta la possibilità di diagnosi personale, caso per caso.
Sarà anche bene poi ricordare che al momento della nascita non c’è tempo per lunghi consulti: i grandi prematuri soffrono, non sono in grado di respirare da soli, il cuore spesso batte così lentamente che è difficile anche solo trovarlo. E i medici devono decidere subito, perché per ogni secondo che passa senza che il cervello venga ossigenato bruciano irreparabilmente migliaia di neuroni.
In questi casi è però sbagliato e fuorviante parlare di rianimazione: il primissimo intervento consiste semplicemente nel far respirare il bambino, a volte usando l’ossigeno, a volte l’aria dell’ambiente.
Esclusivamente aiutandolo subito a respirare se ne potranno poi valutare i segni vitali, e solo in un secondo momento si potrà stabilire se e come continuare a intervenire, in stretta relazione con i genitori.
Crediamo che questa prima opportunità di sopravvivenza non si possa definire “accanimento”, e anzi riteniamo che al di sopra delle 22 settimane una chance vada sempre data, ogni volta a giudizio del medico.
Ricordando la piccola, tenace Amilla.
C’è poi chi ritiene sia inutile intervenire su un prematuro se ci sono elevate probabilità che rimanga disabile. Costoro parlano di “qualità della vita”, sostenendo che un’esistenza condannata a gravi disabilità non valga la pena di essere vissuta (ma chi stabilisce il limite di gravità dell’handicap?): meglio sarebbe, dicono, non iniziarla mai. Ma al momento della nascita nessuno è in grado di dare con certezza una rigorosa prognosi di disabilità: esistono bambini perfettamente normali dopo una nascita segnata da gravi sofferenze, come anche bambini apparentemente vitali che poi mostrano gravi danni cerebrali. È soprattutto intollerabile e indubbiamente discriminatorio stabilire che ci siano persone senza diritto di soccorso e di cura alla nascita solo perché in futuro potrebbero essere disabili. Se accettassimo questo principio, se un certo grado di disabilità fosse il criterio per decidere di aiutare o meno la sopravvivenza di una persona (in questo caso già nata), in breve questo spietato parametro verrebbe esteso a tutti: neonati, adulti, anziani, persone di qualunque età. È così? Allora non nascondiamoci dietro ai ‘grandi prematuri’, e parliamo esplicitamente di discriminazione verso chi è più fragile.
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