Quei ragazzini di leva mandati a morire da Putin
Gli ufficiali avevano detto loro che avrebbero dovuto svolgere delle esercitazioni, si sono ritrovati all’inferno. Il Cremlino nasconde i morti e vieta i funerali per nascondere la vergogna dei figli della Russia mandati al fronte “per sbaglio”. In realtà, il dramma dei tanti piccoli Ivan mandati a morire non sarebbe mai venuto allo scoperto se le famiglie non si fossero ribellate alla congiura del silenzio
Chi visita ora il sito del Comitato delle madri dei soldati russi (https://ksmrus.ru/) trova un messaggio accorato: il sito è sotto attacco, gli hacker ne hanno bloccato il funzionamento, stiamo lavorando per ripristinarlo. Non occorre essere complottisti per pensare che questo “guasto”, adesso, non può essere una coincidenza. Fin dai tempi della prima guerra di Cecenia (1994-1996), infatti, il Comitato è in prima linea nel difendere i diritti degli uomini in uniforme (un milione in servizio attivo e altri due milioni e mezzo nella riserva) e, soprattutto, dei ragazzi in uniforme. Cioè dei prizyvniki, i coscritti, i giovanissimi chiamati al servizio di leva, che dura un anno ed è obbligatorio per tutti i cittadini russi di età compresa tra i 18 e i 27 anni.
Non è un caso se l’attività del Comitato ha avuto inizio con la Cecenia e torna a essere prezioso adesso, con la guerra in Ucraina. Il primo attacco contro i guerriglieri indipendentisti del Caucaso, nell’inverno di quasi trent’anni fa, fu portato mandando avanti reparti di inesperti soldati di leva, che sui monti della Cecenia e nelle strade della capitale Grozny furono alla lettera decimati. Ricordo bene quel periodo: il Comitato, a Mosca, aveva la sede in poche stanze sporche e arredate alla meglio, genitori disperati (e soprattutto donne, sempre le più tenaci in Russia nei momenti di crisi) arrivavano da ogni parte dell’immenso Paese a chiedere notizie dei figli. Era quasi incredibile ma il network spontaneo delle madri, che era riuscito a costruire un rapporto anche con le madri cecene, arrivava a rintracciare ragazzi che il sistema militare sembrava aver ingoiato per sempre.
Un quadro angosciante che ora si ripete con l’Ucraina. Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei “soldatini” russi, dei poveri Ivan che, dopo essersi arresi, spaventati e intirizziti, venivano in qualche modo rifocillati dai civili ucraini. Tutti dicevano di essere stati mandati in Bielorussia o nel Sud della Russia per quella che i loro ufficiali definivano una “esercitazione” e di essersi poi ritrovati al fronte sotto il fuoco. Il sospetto, quindi, è che ancor una volta, come in Cecenia, i generali russi abbiano mandato avanti i ragazzi della leva per saggiare la reazione del nemico, e misurare su quella le mosse successive. Una tattica che, ovviamente, presuppone il sacrificio dei meno pronti al combattimento, appunto gli Ivan che a malapena hanno imparato a usare un fucile.
Igor Konashenkov, il generale che fa da portavoce ai comandi militari russi, ieri ha fatto una dichiarazione allucinante. Ha detto che “purtroppo sono stati scoperti alcuni fatti relativi alla presenza di coscritti in unità delle forze armate russe in territorio ucraino”, aggiungendo che alcuni reparti di soldati di leva erano finiti al fronte “per sbaglio” e che erano poi stati subito ritirati. Per sbaglio? Il potente esercito russo manda avanti, in una guerra studiata e preparata per mesi, i reparti sbagliati? L’imbarazzo e la vergogna sono enormi, anche perché il 7 marzo, nel fare gli auguri alle donne (quindi alle mamme e alle sorelle dei militari) per la loro Giornata, Vladimir Putin in persona aveva categoricamente escluso che nei combattimenti fossero impiegati soldati non professionisti. È scatta così l’operazione “salvate il presidente Vova”: i militari si sono attribuiti una formidabile e criminosa incompetenza e Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, ha dichiarato che Putin era all’oscuro di quei fatti.
In realtà, il dramma dei tanti piccoli Ivan mandati a morire non sarebbe mai venuto allo scoperto se le famiglie non si fossero ribellate alla congiura del silenzio. Prima era calato un muro di tenebra sulla sorte dei figli. Svetlana Golub, una delle attiviste del Comitato delle madri, rende il quadro della situazione con queste parole: “Era pazzesco, ricevevamo centinaia e centinaia di telefonate, famiglie che non avevano più alcuna idea di dove fossero finiti i loro figli militari e che non avevano alcuna possibilità di contattarli o comunicare con loro, anche solo per sapere se fossero vivi. Lacrime, lacrime, lacrime”. Poi gli ucraini, che fin dalle prime ore della guerra si sono mostrati molto più abili e intelligenti dei russi nell’uso della comunicazione, hanno istituito il numero verde “Chiama il tuo caro”, offrendo agli Ivan prigionieri la possibilità di chiamare casa e dare così notizie della propria sorte, di quella dei commilitoni e, facile immaginarlo, raccontando ciò che avevano visto della guerra. Infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso: il divieto di seppellire i caduti, con i funerali rinviati a “un momento più opportuno, quando sarà finita l’operazione”.
La diga dell’omertà a questo punto è crollata. Emblematico il caso di Sergey Tsivilyov, governatore della regione di Kemerovo, in Siberia, che si era recato a Novokusnetsk per un incontro in una base dei reparti anti-sommossa chiamati Omon. Sentendosi forse al sicuro, ha cominciato a ripetere la versione ufficiale sui caduti e sui funerali. Molti dei presenti, familiari di soldati professionisti che però domani potrebbero essere spostati verso il fronte, sono insorti, accusandolo di mentire come il Governo e gridando “i nostri figli non sono carne da cannone”. L’azione delle madri e di tante altre donne russe forse non basterà a cambiare le politiche del Cremlino e a fermare il massacro in Ucraina. Servirà, però, a difendere l’umanità e la dignità di un popolo, quello russo, che non meritava quanto sta accadendo.
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