Proprio una bella domanda. Chi ha invaso le competenze altrui?
La Corte d’Appello di Milano «non ha invaso territori altrui». La perentoria affermazione è del suo presidente, Giuseppe Grechi, che ieri, inaugurando l’anno giudiziario nel distretto meneghino, ha difeso a spada tratta il decreto del 25 giungo 2008, con il quale veniva dato via libera all’abbandono di Eluana Englaro al suo destino di morte per fame e sete. Un giudizio che appare in palese contraddizione con quello espresso mercoledì scorso dal presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, che riferendosi alla vicenda nel suo complesso ha parlato esplicitamente di un caso di «supplenza giudiziaria ».
Con la sua frase autoassolutoria, l’alto magistrato sorvola anche su quella specie di “protocollo” che la prima Sezione civile della stessa Corte ha stilato in coda alla sua decisione: ci riferiamo alle «disposizioni accessorie cui attenersi in fase attuativa» – così vengono definite – che vanno dall’indicazione del luogo dove avviare la sospensione del sostegno vitale («hospice o altro luogo di ricovero confacente »), all’eventuale somministrazione di «sedativi o antiepilettici», all’«accudimento accompagnatorio della persona» di Eluana, che comprenderebbe l’«umidificazione frequente delle mucose», la «cura dell’igiene del corpo e dell’abbigliamento, ecc.». Un vero e proprio “disciplinare” esecutivo per i 15-20 giorni di agonia prevedibili che, con ogni evidenza, non è facile considerare tra le competenze tipiche di un giudice. Ma il dottor Grechi non si è limitato a sancire che i suoi colleghi hanno fatto, in definitiva, “il loro mestiere”. Tesi per altro di nuovo contraddetta ieri dagli Ordini dei medici di Milano e Bologna, che denunciano il rischio di dar vita a una nuova categoria, quella del “medico per sentenza”, ridotto a mero esecutore di «volontà sanitarie altrui» – rifiutandolo nettamente. Grechi ha invece ribadito anche il dovere del magistrato a dare sempre una risposta al cittadino, «per quanto nuova o difficile sia la domanda di giustizia che gli viene rivolta».
Ed ha infine ammonito il potere legislativo (Parlamento) e quello esecutivo (governo, regioni ed enti locali) a non «porre nel nulla le sentenze definitive», perché in base alla Costituzione «un potere non può interferire in un altro». Ebbene, sul primo punto, fior di giuristi hanno più volte contestato la forzatura compiuta fin dall’inizio, avendo consentito il ricorso alla procedura di “volontaria giurisdizione”, usata di norma per curare e regolare beni e interessi privati, ma in questo caso estesa anche alla disponibilità del bene personale per eccellenza, quello della vita. Né può bastare, come fa il magistrato milanese, chiamare in causa, a conferma della correttezza della strada intrapresa, la Cassazione, la Consulta e la Corte europea dei diritti umani. Perché è ben noto (ma non al grande pubblico, purtroppo), che questi organismi non sono minimamente entrati nel merito della decisione, apprezzandone solo gli aspetti tecnico-procedurali (ancora Flick docet).
Quanto all’invito a chi fa le leggi e a chi le attua a non mettere i bastoni fra le ruote, tanto per tradurre in linguaggio corrente l’invito del presidente della Corte d’Appello, va spesa ancora qualche parola. Proprio il rigoroso «ancoraggio ai principi della Costituzione» da lui invocato, ci aiuta a ricordare che, nel nostro sistema, la sovranità in ultima istanza appartiene al popolo, il quale la esercita di regola negli organismi legislativi a ciò deputati. Nessun dubbio dunque che le Camere, pur non potendo più intromettersi in un decreto volto ad attribuire una facoltà riconosciuta a un singolo (staccare il sondino ad Eluana), possono sempre intervenire per regolare i contenuti delle sentenze (per esempio stabilendo che alimentazione e idratazione non sono terapie mediche disponibili) ed anche per disciplinare i comportamenti degli attori estranei alle parti in causa (pensiamo appunto al personale sanitario coinvolto nell’esecuzione del decreto in questione).
In definitiva, non è qui in discussione la buona fede e le stesse buone intenzioni di chi difende il proprio operato. Non sembra però accettabile teorizzare, come ormai sempre più spesso accade di ascoltare anche in sede politica, una presunta superiorità etica “a priori” degli operatori della giustizia e delle loro scelte, che finirebbe davvero per intaccare, essa sì, il principio irrinunciabile della separazione dei poteri
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