Padre Giancarlo Bossi in volo per le Filippine
«Torno dai miei amici sono loro il mio destino»
Lo aveva detto un minuto dopo essere stato liberato, prima ancora di prendere l’aereo per l’Italia: «Appena possibile, spero dopo Natale, tornerò nelle Filippine tra la mia gente: qui c’è ancora troppo da fare per me». E padre Giancarlo Bossi, che è uomo di parola, oggi è a bordo dell’aereo che lo sta riportando laggiù, in quella che da trent’anni è diventata la sua terra. Il missionario del Pime, rapito il 10 giugno scorso da guerriglieri islamici e rimasto tra le loro mani 39 giorni, non ha provato un solo istante di rancore né la tentazione di abbandonare un popolo che avrebbe potuto considerare ingrato: «Oggi io sono felice perché il mio desiderio si è realizzato. Mi hanno consegnato il biglietto dell’aereo, l’ho qui in tasca…», ha invece detto ridendo a una folla di cittadini accorsi a salutarlo una settimana fa, in una serata milanese intitolata “Buon viaggio, padre Bossi!”. Lo sa bene che proprio quel giorno a Mindanao, nella sua regione, moriva un missionario, padre Roda, assassinato per aver opposto resistenza ad altri rapitori, compagni dei suoi, ma neanche questo ha incrinato la vocazione a un obiettivo che aveva scelto trent’anni fa, appena diventato prete: «Far sì che il Padre Nostro diventi una realtà. Se così lo chiamiamo significa che siamo tutti fratelli e figli suoi, ma poi ci sono ancora ricchi e poveri, guerre tra popoli, terre flagellate dalla fame e allora i conti non tornano più…».
Ecco, è per far “tornare i conti” che i missionari come padre Bossi sono attirati dalla povertà come le api dal miele, anche dalla povertà interiore, quella che ti porta a essere un meschino sequestratore, forte delle armi ma schiavo di un destino ben misero: «Non è passato giorno che io non abbia pregato per i miei rapitori – ha detto –, persone che in quei 39 giorni e in altrettante notti ho imparato a conoscere bene.
Provavo a farli ragionare, a liberarli dalla loro prigionia, ma non sapevano reagire, dovevano obbedire ai loro capi. Oggi io sono libero, loro invece sono ancora prigionieri». Poi li ha chiamati amici: «Che cosa auguro a questi sfortunati amici? Semplicemente che anche loro, un giorno, possano sedere la sera a un tavolo con una moglie e dei bambini, abbiano una cena da dividere, una vita normale, degli affetti…». Nessuna ideologia politica, nessun perdonismo, solo la logica del Vangelo nelle parole di padre Giancarlo. Come lui, tanti altri missionari oggi sono nei luoghi dove “i conti non tornano” per dare una mano al Padreterno: anche dove chiunque altro è dovuto fuggire, come in Somalia, dove non resta più un Medico senza Frontiere o la più coraggiosa delle onlus ha sbaraccato, trovi sempre un ultimo manipolo di suore o preti, estremo avamposto di Dio. Non fanno rumore, nessuno li conosce se non quando il fuoco fatuo della cronaca li scopre all’improvviso e su di loro accende accecanti quanto effimeri riflettori: «Non credevo che il mio rapimento provocasse tutto questo baccano – ha riso l’altra sera sopportando per l’ultima volta flash e telecamere con la stessa pazienza con cui aveva sopportato «quei poveri diavoli» dei suoi rapitori –.
Ora non vedo l’ora di tornare al mio silenzio, alla missione, a chi non ha una ciotola di riso o di acqua pulita, ai bambini che muoiono di malattie curabili con meno di un euro».
Anche ai suoi rapitori, i più malati dentro. Non va a fare proselitismo né a convertire la gente, anche se convertirebbe anche i sassi, padre Bossi. Come ogni missionario il Vangelo lo va a vivere nei fatti, non a raccontare. Così ha fatto l’altra sera, affascinando la gente di Milano. Tra loro, in platea, la comunità islamica di Abbiategrasso, il suo paese natale: nei 39 giorni del rapimento avevano pregato per la sua liberazione.
Rassegna Stampa
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