Non si può morire così
Figli d’altri e di «nessuno» . Figli nostri
Erano figli di Rom, nati e cresciuti fra le baracche dei campi abusivi, dove le città finiscono nel nulla. Sono morti bruciati. I due più piccoli, quattro e sei anni, erano sordomuti. Eva, la più “grande” coi suoi dodici anni, da sola tra le fiamme fino all’ultimo li ha tenuti abbracciati. Attorno, sotto a quel cavalcavia alla periferia di Livorno, nessuno è riuscito a fare niente. Eva e gli altri sono morti da soli, compiendo fino in fondo il destino da ultimi che aveva segnato i brevissimi anni della loro vita. Mentre a pochi chilometri da quella colonna di fumo nero le spiagge della Versilia e della Maremma ieri erano piene delle voci dei nostri figli, sguazzanti nell’acqua sui loro canotti di gomma, felici come lo si è a cinque anni, al mare, d’estate. I nostri figli, e quei quattro. I nostri figli, e i “loro”. Figli di “altri” o, piuttosto, di “nessuno”. La notizia di Livorno, nelle auto in coda per l’esodo di Ferragosto, ci è arrivata addosso con la pesantezza del piombo. Come un pugno: perché, per quanta diffidenza o ostilità ci possa essere in tante nostre città e periferie verso i nomadi, la sorte di questi quattro è una faccenda atroce e intollerabile: per la quale non possiamo raccontarci che è stato un disgraziato caso. Sono mille, le piccole baraccopoli abusive ai margini delle città italiane, e decine di migliaia i bambini che ci vivono – come Eva e i suoi fratelli. Quella morte da animali in gabbia non è stata una fatalità assurda, ma la somma di circostanze sotto agli occhi di tutti, e prevedibili: dei bambini lasciati a sé stessi, baracche infiammabili come paglia, e, attorno, nessuno. Sappiamo anche che ben difficilmente quattro dei nostri figli sarebbero morti così. Non tra i rifiuti, non lasciati alla custodia impotente di una sorella di dodici anni. Non dei bambini sordomuti, nemmeno capaci di sentire il primo crepitare delle fiamme, nemmeno capaci di urlare, e chiedere aiuto.
Non vivono e non muoiono così, i nostri figli ( e Livorno, è solo l’ultima strage, che si allarga nei titoli per il numero delle vittime. Quante volte, in inverno, abbiamo letto nelle cronache interne dei giornali di un piccolo rom morto nella roulotte incendiata da una stufa).
Ma è, in realtà, come se quei ragazzini che vediamo a elemosinare ai semafori e che pure ci impietosiscono non fossero ai nostri occhi bambini come gli altri. A Livorno, ieri, gli abitanti di quella periferia tiravano fuori dalle tasche le caramelle e gli spiccioli che, raccontavano, regalavano ogni giorno a quei quattro. Ed erano addolorati, eppure quegli spiccioli e quelle caramelle aumentavano la nostra vergogna. Caramelle, a dei bambini sordomuti in un tugurio sotto a un cavalcavia?
Centinaia di campi abusivi sorgono oltre i confini “civili” delle città italiane dentro a una logica di “tolleranza” buonista, che a ben guardare rivela la sua natura di sostanziale indifferenza: che i nomadi facciano come vogliono, secondo la loro “cultura”, e almeno finché gli abitanti di quelle periferie non insorgano, esasperati dalla sporcizia e dal degrado. Che si arrangino, gli zingari, come possono, “altri” da noi, diversi e incomprensibili. Poi una notte una baracca prende fuoco – facile, con le pareti di cartone, pensiamo, ascoltando la radio. Ma sappiamo bene che le facce di quei quattro erano del tutto uguali a quelle dei nostri figli, qui accanto. E che i figli degli altri, anche quelli con la mano tesa ai semafori, ci riguardano. Non può accadere che muoiano così, senza che ci prenda una profonda tacita vergogna. Perché in fondo ce lo abbiamo scritto dentro che, se erano figli di “nessuno”, erano figli nostri.
Rassegna Stampa
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