Non c’è una sola strada per costruire l’Unione
In giro per l’Europa, questi ultimi giorni sono stati segnati dalle reazioni al ‘ no’ irlandese al Trattato di Lisbona ( per tanti versi affine al ‘ no’ olandese alla prima versione del trattato costituzionale).
Le reazioni prevalenti andavano dalla ostentazione di una grandissima preoccupazione alla manifestazione di un vero e proprio scandalo. Tali reazioni veicolavano un messaggio molto chiaro: gli irlandesi hanno posto un ostacolo sulla via che porta alla crescita dell’Unione europea, o meglio, sull’unica via che le dà un futuro. Quest’unica via è quella delimitata ed orientata dalla cultura che ispirava il vecchio trattato costituzionale (arenatosi per le bocciature olandese e francese). In quella direzione il vecchio trattato era un passo lungo, quello di Lisbona è più breve, ma la direzione resta la stessa perché unica. Ad una Ue più forte si può arrivare in più o meno tempo, ma per una sola strada. Chi si oppone a quest’unico percorso ipso facto si oppone ‘all’Europa’. Mostrarsi preoccupati per il ‘ no’ irlandese è necessario, ma farsi prendere da tanto zelo significa concedere troppo al fronte della vecchia cultura politica oggi dominante nel continente. Anni fa Tony Blair ebbe a sintetizzare la sua posizione sul futuro dell’Europa con una formula efficace: « Not a Superstate, but a Superpower » . Della formula si può non condividere il significato, ma non si può non riconoscere l’utilità analitica. Essa ripropone una verità tanto storica quanto politica: nella vicenda che va dalla Ceca di Schumann, Adenauer e De Gasperi sino al trattato di Lisbona si intrecciano almeno due ispirazioni, in parte alternative: da un lato si vuole l’Unione Europea come una sorta di mega- Stato (o come supporto agli Stati); dall’altro proprio anche per mezzo delle istituzioni di quella che è oggi l’Ue – Superpower tra altri Superpower – si vuole superare l’era politica dominata pressoché esclusivamente dagli stati e dalle loro pretese di sovranità. Anzi, si potrebbe persino sostenere che alle origini della Ue vi è proprio l’opzione antistatalistica con la scelta di attribuire ad una istituzione non statuale (la Ceca) la gestione di risorse come il carbone e l’acciaio che, contese tra stati, avevano procurato all’Europa 150 anni di guerre. Anzi, lo stesso presente vede le istituzioni europee funzionare più da antidoto e da alternativa che non da supporto alla cultura statalista europeo- continentale. In questa luce il ‘no’ irlandese può funzionare non come un ‘no’ all’Unione Europea, ma ad una certa idea di Unione Europea.
È un ‘no’ che potrebbe riaprire il confronto liberandolo dal monopolio di un solo ‘partito’.
Chi si oppone all’idea di una Unione europea Superstate ha molti argomenti da far valere nel confronto: ormai, in Occidente, una società dominata dallo Stato fa fatica a crescere economicamente e fatica anche a far crescere spazi di dignità e di libertà per le persone, le associazioni e le altre istituzioni. Si tratta di argomenti forti ed importanti, che non andrebbero trascurati. Ma, insieme a questi, per lo meno chi riflette sull’insegnamento sociale della Chiesa e considera e le prospettive dell’impegno politico dei cattolici, dovrebbe affrontare anche un altro gruppo di questioni. Le due alternative – ‘sì’ o ‘no’ al Superstato – sono tutt’altro che indifferenti in una prospettiva segnata dalla recuperata centralità del principio di sussidiarietà e del principio di responsabilità. In una prospettiva come quella riproposta ad esempio dalla Centesimus Annus, il modello Superstate si manifesta come decisamente angusto. Se si cerca un esempio, si guardi alla opposizione tra la laïcité, ‘consustanziale’ al progetto statuale, e la religious freedom,
modello di libertà religiosa recepito dalla Dignitatis Humanae del Vaticano II. Si troverà che quest’ultima è incompatibile con un regime di sovranità assoluta della politica in forma di Stato.
Rassegna Stampa
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