Morte di un Blasfemo
“Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica”. Così inizia il testamento del ministro pakistano per le libertà religiose. “Mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita”. Il privilegio è stato concesso il 2 marzo 2011 quando, in una mattina piovosa ad Islamabad, un commando di terroristi talebani del Punjab, a bordo di una moto, ha scaricato trenta colpi uccidendo Shahbaz. Stava uscendo dalla casa della madre, a cui faceva visita ogni mattina da quando, due mesi prima, era rimasta vedova.
Francesca Milano, giovane giornalista de “Il Sole 24 Ore”, al suo primo libro, la racconta attraverso ricostruzioni, documenti e testimonianze che, seppur prive del necessario distacco del tempo, ci restituiscono nel ricordo di chi l’ha conosciuta una figura viva, che ha lasciato una traccia importante prima di finire ucciso, martire.
La storia del primo ministro cattolico del Pakistan, che ha lottato per tutta la vita contro i soprusi che subiscono i cristiani e le minoranze religiose nel suo Paese, è quella di un martire moderno, che ha vissuto la propria fede fin dall’infanzia. Originario di Khushpur, “villaggio della felicità” ovvero ghetto cristiano in un paese a maggioranza mussulmana, racconta che “da bambino ero solito andare in chiesa a trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio e nella crocifissione di Gesù. Assistetti i parroci locali e ciò mi diede l’opportunità di conoscere in prima persona i problemi della Chiesa in Pakistan”.
La sua vita è una manifestazione di come “l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà”, come ha detto Benedetto XVI nel maggio del 2010 al Pontificio Consiglio per i Laici. Shabhaz Bhatti si rende conto che i soprusi dei cristiani sono quelli di tutte le minoranze in Pakistan e comincia un incessante lavoro per combattere ogni forma di ingiustizia nei confronti di poveri e deboli: fonda una associazione, la All Pakistan Minorities Alliance, si batte contro le discriminazioni sociali, la violenza e, madre di tutte le sue battaglie, contro la “legge nera”, quella sulla blasfemia.
La legge, che prevede la pena di morte per chi abbia parole o atteggiamenti blasfemi, è spesso usata, dalla polizia e dalla magistratura del paese, per vendette personali, processi sommari o per commettere abusi verso poveri o minoranze. Shabhaz passerà tutta la vita a combattere contro questa legge e i suoi abusi. Il caso più famoso, portato all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, è quello di Asia Bibi, giovane donna cristiana, accusata di blasfemia e incarcerata per un banale litigio al pozzo del suo villaggio. Viene condannata a morte senza potersi difendere o fornire la sua versione dei fatti. Bhatti, già ministro per le minoranze si interessa del caso, intercede per lei presso il Presidente e ne parla a tutti quelli che incontra: perfino al Papa, usando i cinque minuti che gli sono concessi in udienza, Bhatti raccomanda la sorte della piccola Asia Bibi. L’esecuzione viene fermata, ma Asia rimane in carcere. La morte di Bhatti giunge come un fulmine a ciel sereno: “Ho l’impressione che le sbarre della mia cella si stringano ancora di più” dirà Asia. “La nostra vita appartiene al Signore e se oggi sono ancora viva non è per caso.”
La scelta politica per Shabhaz Bhatti è sempre stata uno strumento per portare avanti le sue battaglie: decide di impegnarsi direttamente dopo l’attentato in cui perse la vita Benazir Bhutto, eroina pakistana rientrata in patria dopo molti anni di esilio. Sempre in imbarazzo in abiti formali o impacciato, si batte però come un leone per dar voce alle ingiustizie e alle minoranze, sia nel Governo in cui siede, sia quando il nuovo esecutivo vuole eliminare il suo ministero. Mantiene rapporti in tutto il mondo, e porta le sue battaglie all’attenzione della politica internazionale.
Il suo testamento si conclude con una dichiarazione d’amore verso i poveri e i bisognosi: “Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù, ed io potrò guardarLo senza provare vergogna”.
Rassegna Stampa
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