Monsignor Giovanni D’Ercole: un vescovo nella polvere nel dolore del terremoto
Ha riorganizzato la sua Chiesa, sei sacerdoti parroci delle tendopoli lungo la Salaria, Valle del Tronto schiantata dal terremoto. Chiese di pietra non ce ne sono più nei Comuni appesi da una parte ai contrafforti dei Sibillini, oltre Acquasanta Terme, e dei monti della Laga dall’altra. Ha passato giorni sulle macerie, ha scavato con le mani. Sperava di trovare persone vive. Ha trovato solo morti. Monsignor Giovanni D’Ercole è il vescovo di Ascoli Piceno da due anni. Prima era vescovo ausiliare dell’Aquila. Il terremoto lo ha inseguito.
Ha passato giorni oscuri, domande e domande e risposte da rintracciare nella forza della fede e nel libro della Bibbia. Dice: «C’è già scritto tutto lì, la nostra disperazione e la speranza di Dio».
Quando è arrivato nella zona del terremoto?
«Alle quattro e venti della notte. Ho sentito la scossa e sono balzato dal letto. Ho preso l’auto e ho risalito la Salaria a rotta di collo. Temevo fosse all’Aquila e sono andato in quella direzione. Al bivio di Arquata del Tronto ho visto gente tutta impolverata che vagava per la strada. Sono salito verso Pescara del Tronto. C’era una nuvola di polvere immensa e macerie dappertutto. Mi sono messo a scavare con le mani. Ho trovato due ragazzi giovani, in strada coperti dai sassi di una casa. Uno aveva la faccia nella polvere. Ho provato a girarlo, perché respirasse. Ma era morto».
E poi è rimasto lì?
«Sì, per abbracciare la gente che soffriva. Un vescovo non esercita un ruolo, ma condivide la vita, un abbraccio vale mille parole».
Cosa le chiedevano?
«Perché Dio permette tutto questo? Era la domanda di molti. C’era una donna anziana viva e la figlia giovane morta. La donna gridava e io l’aiutavo a gridare: “Grida il tuo dolore, gridalo forte, perché Dio ti sta ascoltando”. Sono stato ore con una nonna che aveva sotto le macerie figli e nipoti. Era serena, anche se non li trovavano. A un certo punto si volta e mi dice: “Vede, don Giovanni, non li trovano perché Dio li sta abbracciando prima di lasciarli andare”».
Come si resiste al dolore?
«Standogli accanto, senza paura di gridare la sofferenza. Spesso non c’è altra risposta che il silenzio e l’abbraccio. Io ho capito subito che quelle persone avevano bisogno di essere aiutate nel loro dolore. Ho chiamato i miei sacerdoti e ho chiamato i frati della Comunità del Mandorlo di Ascoli. Li ho mandati immediatamente nei paesi, tra le macerie per confortare le persone. C’è una sola cosa che vale in questi casi: la vicinanza dell’affetto. La Chiesa non poteva tenersi lontana dalla polvere».
Poi è andato a recuperare il crocifisso nella chiesa di Pescara del Tronto.
«Ho camminato sulle macerie delle case, ma la chiesa non la vedevo più. Ero stato lì solo pochi giorni prima a celebrare la Messa. Improvvisamente vedo uno squarcio tra le rovine e il crocifisso appeso intatto a ciò che restava di un muro. Ho corso tra calcinacci che crollavano per via delle scosse e ho preso il crocifisso. L’ho portato ai funerali e lo metterò nella prima chiesa che sarà ricostruita. È l’icona delle sofferenza e del riscatto. Se ho potuto riprenderlo intatto, qualcosa Dio ci vorrà pur dire».
Cosa le rimane nel cuore?
«Le domanda di chi mi ha chiesto perché io sono rimasto vivo. È il tormento più grande. La mamma che ha perso la figlia, la nonna anziana che ha visto morire i nipoti. Non so rispondere (e l’ho detto a chi mi interrogava) se non con le parole del Vangelo di Matteo, quando racconta che un giorno verrà in cui uno sarà preso e l’altro lasciato».
È sufficiente?
«La fede aiuta a capire ciò che è accaduto. Ma dobbiamo evitare il fatalismo. Giobbe nella Bibbia, perseguitato dal male, era davvero arrabbiato con Dio e non si arrese mai nel rinfacciare a Dio le sue domande. Lui con Dio ci litigava, ma alla fine professa la sua fede: “So che il mio Redentore si ergerà sulla polvere”. Noi abbiamo visto cos’è la polvere. La nostra storia qui si è trasformata in polvere, ma è quella stessa polvere che per Giobbe, dopo il dramma di una fatica disumana, diventa altare sul quale brilla la vittoria di Dio».
Da dove si riparte?
«Dalla polvere e dalle lacrime, cioè dalla rovina delle cose e dal dolore della morte. Il crocifisso è l’icona perfetta di tutto ciò. Eppure è un segno di speranza. Solo la fede ci aiuta a superare un terremoto. Paolo ai cittadini di Corinto spiegò che se per mezzo di un uomo è venuta la morte, per mezzo di un uomo è venuta anche la vita. Non lo capirono e lo cacciarono. Ma lui ben sapeva che Dio non è tenuto a giustificarsi. Queste cose le ho dette anche a chi mi interrogava sulla responsabilità di Dio nel terremoto. Possiamo dire che si tratta di un Dio poco logico, perché non ci aiuta a prevenire i terremoti. Ma anche questo è sbagliato. Dio ha la passione per l’impossibile. Un padre che per ore è stato accanto alla macerie sapendo che là sotto c’era il figlio di 22 anni continuava a ripetere che la sua vita era finita e a Dio non importava nulla se noi moriamo. È la stessa cosa che dissero gli apostoli a Gesù sul lago di Tiberiade durante la tempesta: “Maestro non ti importa che noi moriamo?”. Poi Dio fece l’impossibile e ascoltò il grido degli angosciati, perché Dio non teme le imprecazioni degli uomini. Dopo ore quel figlio lo hanno trovato vivo».
Qual è la storia che le rimane impressa?
«Quella di Giulia e di Giorgia, due sorelline stupende. Le avevano trovate proprio sotto la chiesa di Pescara del Tronto, dove avevo appena recuperato il crocifisso. Giulia l’hanno estratta morta, Giorgia 5 anni viva, perché Giulia l’aveva protetta. Nemmeno un graffio, solo la bocca piena di polvere. Morte e vita abbracciate, ma ha vinto la vita. Anzi, la morte ha permesso la vita».
E adesso che si fa?
«È la domanda che mi fa continuamente la gente che incontro. Il terremoto è un boia notturno che ci ha strappato la vita, ma questa terra è popolata di gente che non si scoraggia. I primi giorni sono stati pieni di affetto e di solidarietà, ci ha abbracciato il mondo intero. Adesso dobbiamo stare attenti allo stordimento, che subentra quando l’emergenza finisce. Come all’Aquila, la cui sofferenza conosco benissimo. La differenza del coraggio la può fare la fede. Sarà la nostra fede che ci impedirà di finire in miseria. Ecco perché al funerale ho detto che le nostre campane torneranno a suonare. La memoria di questi luoghi e della sua gente non verrà cancellata dalla polvere e dalle macerie. Mi piace ricordare una frase di san Luigi Orione, il fondatore della congregazione a cui appartengo. Visse due terremoti terribili, quello di Messina nel 1908 e quello di Avezzano nel 1915, migliaia di morti e distruzioni totali. La prima protezione civile la organizzò lui. Ebbene, diceva: “Guardare al cielo, pregare, poi avanti con coraggio e lavorare”. La gente di qui, ne sono convinto, farà esattamente la stessa cosa».
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