Missionario in Bangladesh: siamo un ‘piccolo resto’ guidati dallo Spirito Santo
Dhaka (AsiaNews) – “I missionari stranieri in Bangladesh sono un piccolo resto, guidati dallo Spirito Santo ad annunciare il Vangelo”. Lo dice ad AsiaNews p. Franco Cagnasso, missionario del Pime (foto n. 2). Egli è tra i religiosi e consacrati che hanno appena incontrato papa Francesco a Dhaka, nella chiesa dell’Holy Rosary a Tejgaon. Con lui si sono raccolti in preghiera e hanno ascoltato il discorso a braccio del pontefice, che parla – tra le altre cose – di armonia e della divisione creata dal pettegolezzo, e paragona il parlar male degli altri ai “terroristi che lanciano le bombe”.
Nel suo intervento, il missionario del Pime sottolinea che il “piccolo resto” della prima ondata missionaria oggi lascia in eredità una Chiesa ben formata, che riesce anche ad esprimere forze da inviare all’estero. A margine dell’incontro, riflette sul significato di fare missione: il “servizio totale” degli operatori pastorali, l’apertura ad accogliere nuovi evangelizzatori che possono arricchire le Chiese locali, la Chiesa pellegrina che segue il disegno dello Spirito Santo.
La testimonianza di Cristo, afferma, “in un Paese straniero avviene in maniera gratuita, senza aspettarsi ricompense in cambio”. L’aspetto che provoca più apprensione tra i pochi missionari “della prima ora” rimasti, è “non avere un ricambio con nuove leve, che possano portare dinamicità alla missione”. Allo stesso tempo “bisogna sottolineare un fatto rilevante: essere un piccolo gruppo di operatori pastorali ci aiuta molto ad un servizio totale, perché le decisioni sono prese dalla Chiesa locale. Questo ci ‘costringe’ ad avere una posizione di servizio non dominante. Mentre a volte, quando si è in maggioranza, si tende anche in maniera involontaria a far prevalere il proprio giudizio, il proprio modo di pensare e la propria cultura. Invece, rispettare le scelte di altri ci spinge ad un processo di inculturazione personale, di adattamento più efficace di quando eravamo noi ad avere in mano le leve del comando. Siamo immersi nei bisogni della comunità e più vicino a quelli che fanno le decisioni della Chiesa. Un processo simile porta ad adattarsi ai bisogni della gente e risponde meglio all’obiettivo di condivisione e stare insieme alla gente”.
Sulle esigenze di nuovi evangelizzatori, p. Cagnasso spiega: “Una Chiesa matura è una Chiesa missionaria sul proprio territorio, ma anche lontano. Lo Spirito Santo ha le sue strade, e spinge anche ad andare dove nessuno ha mai sentito parlare di Cristo. Quando sono partito dall’Italia tante persone mi dicevano che c’era tanto da fare per i cattolici locali. E allora si può ben immaginare quanto bisogno ci sia qui, in Bangladesh”. “Capire che il Signore mi chiama ad andare fuori – continua – è un valore enorme per comprendere la natura della Chiesa, che non è un rullo compressore che vuole cristianizzare secondo programmi ben precisi, ma è la seminagione della Parola che poi cade in terreni diversi. Ci sono posti in cui il seme dà frutto e altri in cui non germoglia, ma noi tentiamo il più possibile di gettare i semi”. Come è arricchente andare fuori a predicare il messaggio cristiano, allo stesso tempo “è importante continuare ad accogliere, perché persone che vengono da fuori con una propria cultura e bagaglio personale portano modi di vedere le cose che possono essere d’aiuto”.
Il missionario riflette anche sul “valore della Chiesa pellegrina alla ricerca del Regno, cioè sul fatto di non legarsi ad una comunità locale, ma avvertire che bisogna andare lì dove la mia opera può dare più risultati”. Non si tratta di un patologico senso di irrequietudine “che ti porta a non rimanere mai fermo in un luogo. Semmai, risponde alla dimensione fondamentale dell’uomo, che non è mai sufficiente a se stesso. Il papa dice sempre che una Chiesa che rimane al chiuso è una Chiesa malata. Andare fuori invece, provoca l’incontro, l’arricchimento, la scoperta. E forse c’è anche un bisogno interiore di scoprire che il mio carisma, le mie capacità, servono in qualche posto”. (ACF)
Di seguito l’intervento di p. Cagnasso alla chiesa dell’Holy Rosary di Dhaka.
Santità,
sono un missionario italiano, erede di tanti che – negli ultimi secoli – sono venuti da Europa e America per evangelizzare i popoli del Bengala e – spesso con grandissimi sacrifici – hanno fondato la piccola Chiesa che ora accoglie Lei con gioia.
Fino a pochi decenni fa i missionari esteri, insieme ai catechisti locali, erano la “struttura portante” della Chiesa in Bangladesh, nel contesto della grande maggioranza di fedeli di altre religioni. Oggi siamo un “piccolo resto” che si mette al servizio di una Chiesa ben formata, in grado di gestirsi, articolata in ministeri, vari tipi di pastorale, e di impegni.
La nostra presenza desidera essere il segno che la Chiesa è missione dal suo nascere: missione presso il popolo in cui si trova, e missione che ne supera confini, crea comunione con altri popoli per dare e per accogliere le ricchezze del Vangelo vissute in Chiese diverse.
Vogliamo cercare, con pazienza e creatività, le “periferie” a cui Lei spesso fa riferimento, senza paura di sprecare energie anche per chi non dà speranza di risultati concreti e visibili. Vogliamo seminare in tutti i terreni possibili, ed essere la testimonianza umile della condizione cristiana su questa terra, la condizione di pellegrini alla ricerca del Regno.
Siamo grati a Dio perché la Chiesa in Bangladesh ha iniziato a donare evangelizzatori ed evangelizzatrici anche oltre i propri confini; speriamo che questa dimensione cresca, e allo stesso tempo rimanga l’apertura a ricevere volti nuovi, anche dall’Africa, dall’America Latina e da altri Paesi asiatici.
Siamo contenti di essere qui, e grati a questi popoli che ci accolgono, permettendoci di spendere la nostra vita in mezzo a loro per essere, con loro, partecipi del Vangelo di Gesù.
Il loro ruolo pubblico, del resto – ed è il secondo insegnamento del viaggio – le religioni se lo sono conquistato con i fatti. In positivo, quando compongono un mosaico di pacifica convivenza come in Bangladesh e come auspicato più volte dal Papa durante la duplice visita. E purtroppo anche in negativo, quando vengono prese a pretesto per la violenza e l’odio. L’itinerario apostolico di Francesco ha incrociato in questi giorni la tragedia politico-religiosa divenuta finalmente emblematica dei rohingya e il Pontefice ha scritto a Dacca – città toccata appena lo scorso anno dalla follia di chi bestemmia il nome di Dio seminando la morte in suo nome – una pagina incancellabile del dialogo interreligioso, il vero antidoto al terrorismo fondamentalista.
La sua richiesta di perdono per ciò che il popolo rohingya ha subito, l’abbraccio paterno e la delicatezza di chiamarli per nome in Bangladesh (rispettando al contempo la particolare sensibilità birmana sull’argomento) sono gesti paradigmatici. Al posto dei rohingya avrebbero potuto esserci anche altri popoli e gruppi perseguitati, o i martiri cristiani in difesa dei quali più volte il Papa si è apertamente schierato.
Non si tratta di privilegiare questo o quello. Il grido profetico di Francesco si leva per ricordare al mondo, ai carnefici come agli indifferenti, che tutti gli uomini sono «immagine di Dio». Al di là dei nomi politicamente o meno “scorretti”.
E qui il discorso chiama inevitabilmente in causa l’azione dei governi e delle istituzioni internazionali. Il «non bisogna avere paura delle differenze» è messaggio anche politico. Non comprenderne la verità comporta, come la cronaca insegna, un prezzo da pagare molto alto.
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