L’umile dovere di servire la pace
Paolo VI, durante il viaggio in India del 1964 aveva lanciato un appello al mondo che egli stesso definì “grido angosciato”. Era la richiesta alle nazioni di rinunciare alla corsa agli armamenti e di destinare il denaro così risparmiato ad un grande fondo mondiale per aiutare i popoli che mancavano di “alimenti, vestiti, abitazioni, cure mediche”. Il testo dell’Appello di Bombay, del 4 dicembre 1964, fu inviato da Paolo VI al Segretario generale delle Nazioni Unite, U Thant. Questi rispose di esserne rimasto “profondamente commosso” e rivolse al Papa un invito ufficiale perché intervenisse dinanzi all’assemblea generale dell’Onu che, per l’occasione, sarebbe stata riunita in seduta speciale. La preparazione del viaggio, il terzo di Papa Montini dopo quelli in Terra Santa e in India, richiese alcuni mesi. Infine Paolo VI comparve dinanzi all’assemblea generale delle Nazioni Unite il 4 ottobre 1965.
Era il giorno della festa di san Francesco d’Assisi. E ricorreva, quell’anno, il ventesimo della fondazione delle Nazioni Unite. Furono presenti i rappresentanti di centoquindici paesi, la quasi totalità delle nazioni del mondo. Alcune delegazioni, per l’occasione, erano state rafforzate con personale di più alto livello. Si astennero dal presenziare alla visita di Paolo VI i delegati di un solo paese, l’Albania, che di lì a poco, nel 1967, avrebbe scelto di costituirsi quale “primo stato ateo del mondo”. Il Papa tenne il suo discorso in francese.
La visita di Paolo VI alle Nazioni Unite si inscrisse in un momento mondiale di grandi speranze, durante la cosiddetta distensione, sebbene la guerra del Vietnam stesse per conoscere la cosiddetta escalation. Paolo VI si fece accompagnare dal cardinale americano Francis J. Spellman – quasi un padrone di casa essendo arcivescovo di New York – dall’europeo Eugène Tisserant, dal latinoamericano Antonio Caggiano, dall’africano Laurean Rugambwa, dal giapponese Peter Tatsuo Doi, dall’australiano Norman T. Gilroy, dall’orientale Gregorio Pietro Agagianian. Con queste figure dai cinque continenti, e dell’Ovest come dell’Est, Paolo VI sottolineava l’universalismo cattolico e cristiano.
Il discorso nell’aula dell’assemblea generale fu essenzialmente un toccante appello di pace. Con la visita alle Nazioni Unite, il Papa metteva in pratica un orientamento di collaborazione con tutti per il bene comune. Paolo VI intendeva inoltre esprimere un umanesimo cristiano, patrimonio della Chiesa, da condividere con tutte le nazioni. Parlò in forma delicata e suggestiva. Fece cenno all’essere, i cristiani, “esperti in umanità”: “Noi, quali esperti in umanità, rechiamo a questa Organizzazione il suffragio dei Nostri ultimi Predecessori, quello di tutto l’Episcopato cattolico, e Nostro, convinti come siamo che essa [l’Organizzazione delle Nazioni Unite] rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale”.
È interessante notare quale fosse la conoscenza dell’umanità di cui era ricca quella che Paolo VI chiamava “la Nostra esperienza storica”. Si trattava dell’esperienza di sofferenza del genere umano, intesa secondo due grandi categorie: quella di coloro che erano stati segnati dalle tante guerre dell’umanità – fino alle ultime generazioni che sognavano di non vivere nuove guerre – e quella dei poveri. Non dunque una umanità generica era quella di cui Paolo VI rivendicava l’ “esperienza” ma un’umanità toccata, lungo i secoli, dalla guerra e dalla povertà, cioè dalla sofferenza e dal male più acuto. Proseguiva infatti Paolo VI: “Dicendo questo, Noi sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo Nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso”.
Paolo VI insistette sulle necessità dei popoli specie più poveri ed economicamente arretrati, in connessione alla pace. Su cui ebbe parole coinvolgenti. “Non gli uni contro gli altri, non più, non mai!”, fu il messaggio sui rapporti fra i popoli e le nazioni. “Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con armi offensive in pugno”. Paolo VI fondava la pace sulla fratellanza e sull’uguaglianza, due termini che ricorrevano nel discorso. “La vostra vocazione è quella di affratellare non solo alcuni, ma tutti i Popoli”. “Nessuno, in quanto membro della vostra unione, sia superiore agli altri. Non l’uno sopra l’altro. È la formula della eguaglianza (…) Voi non siete eguali, ma qui vi fate eguali. Può essere per parecchi di voi un atto di grande virtù”.
Occorreva, secondo il Papa, “garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi”, ed erano le Nazioni Unite l’istituzione deputata a questo “nobilissimo scopo”. Paolo VI augurava che le popolazioni fossero “sollevate dalle pesanti spese degli armamenti, e liberate dall’incubo della guerra sempre imminente”. Chiedeva una riduzione delle spese per gli armamenti ricordando l’Appello di Bombay. Un passaggio manteneva una nota di realpolitik: “Finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo”. Malgrado la distensione, la guerra fredda era continuata. In ogni caso, la condanna della guerra era netta: Jamais plus la guerre, jamais plus la guerre! Ma per creare pace occorreva una metanoia degli individui e delle nazioni.
Il viaggio di Paolo VI alle Nazioni Unite fu anche il primo viaggio di un pontefice negli Stati Uniti. Tre milioni e mezzo di persone salutarono Paolo VI lungo il percorso dal JFK Airport a Manhattan. Ed il Papa incontrò il presidente Lyndon B. Johnson.
Un punto del discorso di Paolo VI all’Onu non ebbe il gradimento dei dirigenti politici nordamericani: “Studiate il modo per chiamare, con onore e con lealtà, al vostro patto di fratellanza chi ancora non lo condivide. Fate che chi ancora è rimasto fuori desideri e meriti la comune fiducia; e poi siate generosi nell’accordarla”. Il passo riguardava la popolosa Cina comunista – “non la Svizzera” scherzò qualche osservatore – che era allora fuori dalle Nazioni Unite. Ma Paolo VI si guardò bene dal nominare espressamente lo Stato di Pechino. E d’altra parte nel discorso, quasi a consolare la diplomazia statunitense, figurava una sola citazione di personaggi contemporanei, e si trattava di John F. Kennedy.
Con il discorso alle Nazioni Unite, il Papa affermava con chiarezza la vocazione sopranazionale della Santa Sede e della Chiesa cattolica. Non era affatto una novità nel magistero pontificio ma le forme e la simbologia della visita davano rilievo speciale a questa vocazione, che non sempre era stata ben compresa dalla massa dei fedeli cattolici, spesso legati alle sorti della propria nazione. In varie guerre del Novecento i Papi e la Santa Sede si erano trovati isolati, con i cattolici delle singole Chiese nazionali travolti emotivamente dai nazionalismi vincenti.
Appena ritornato a Roma, Paolo VI commentò il viaggio innanzi ai padri conciliari con parole impegnative e con toni che rivelavano una felicità d’animo. L’allocuzione fu rivolta in latino all’assemblea conciliare, ad un’ora dall’atterraggio a Roma, venendo il Papa direttamente dall’aeroporto alla basilica di San Pietro. La “straordinaria riunione” dell’Onu aveva permesso a Paolo VI di “avvalorare il comune proposito di concordia e di pace” dei rappresentanti degli Stati del mondo: “Ringraziamo il Signore, venerati fratelli, d’aver avuto la fortuna di annunciare, in un certo senso, agli uomini di tutto il mondo il messaggio della pace. Non mai questo evangelico annuncio aveva avuto uditorio più ampio e, possiamo pur dirlo, più pronto e più avido di ascoltarlo; non mai tale annuncio è sembrato interpretare congiuntamente la voce misericordiosa del Cielo e la voce implorante della terra, dimostrando cioè essere il misterioso disegno divino sull’umanità perfettamente adeguato alle profonde aspirazioni dell’umanità stessa; e non mai perciò essere la missione della Chiesa, mediatrice fra Dio e l’uomo, giustificata da più evidenti, provvidenziali e moderne ragioni”.
A questo punto Papa Montini soggiungeva con accento personale: “Duole che interprete di così fulgida ora sia stata l’umilissima nostra persona (ma non sceglie forse Iddio, per rivendicare a sé la gloria delle grandi cose, che la nostra storia registra, strumenti impari alla loro importanza e alla loro efficienza?); duole, ma non sia perciò minore il nostro gaudio per il valore profetico assunto dal nostro annuncio: nel nome di Cristo abbiamo predicato agli uomini la pace”.
Paolo VI sminuiva se stesso quasi a sottolineare la grandezza e la rilevanza delle “grandi cose” di cui era stato protagonista. Quindi toccava il registro degli impegni avvenire: “Ora, noi ci accorgiamo d’una conseguenza soggettiva che tale ufficio comporta; e in questo pensiero terminerà il nostro viaggio (…) Conseguenza grave deriva dal fatto d’aver noi annunciato la pace: noi dobbiamo essere, ora più di prima, operatori della pace. La Chiesa cattolica si è assunta un obbligo maggiore di servire la causa della pace per il fatto che, tramite la nostra voce, ne ha solennemente perorato la causa”.
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