La privacy, che ossessione. Tanto il tuo Dna sarà schedato
L’Italia è un Paese singolare. Da qualche anno si è appropriato dell’anglosassone concetto di privacy, e ne è diventato scrupolosamente osservante. Ti iscrivi a una palestra, «per favore, firmi per il trattamento dei dati secondo la legge sulla privacy». Il figlio fa la foto di classe, firmi perché la si possa mettere sul giornalino della scuola. Su un certificato medico, hai il diritto di non dire al datore di lavoro se hai avuto il raffreddore, o cos’altro. E tutto questo si chiama privacy appunto, cioè diritto a che il tuo nome, la tua faccia, la tua salute restino solo tuoi. Poi un giorno, in clima di emergenza sicurezza – e anche di emergenza di consenso popolare – leggi sul giornale che Francesco Rutelli, voce assolutamente moderata e democratica, propone la banca del Dna: «Servirà a facilitare il compito delle forze dell’Ordine, e a individuare con più facilità i colpevoli». E subito, echi favorevoli: lo fanno già negli Usa, e in Gran Bretagna, e funziona
Che funzioni, è possibile. Se si è tutti schedati attraverso quella “impronta” unica che è il Dna, è probabile che dalle tracce lasciate dopo un omicidio, incrociandole con quelle della popolazione intera, al colpevole si arrivi prima. E che, anche, sia un deterrente, il sapersi archiviati in una “banca” che ci può sempre riconoscere. Tuttavia, c’è un problema non secondario. In quei frammenti, ci siamo noi: di chi siamo figli, che malattie svilupperemo, e, man mano che cresce la capacità di decifrare il codice, forse anche le propensioni, le tendenze. L’identità più profonda, l’ereditarietà, le tare. È un libro, anzi una enciclopedia il Dna, che racconterà a chi sappia leggerla davvero molto di noi. Così che, se questa banca nascesse, continueremmo a poter non dire in ufficio che malattia abbiamo avuto, ma il nostro codice genetico verrebbe memorizzato dallo Stato. A fin di bene, naturalmente. Per migliorare la sicurezza comune. E nella più assoluta riservatezza, ovvio – ammesso che qualcosa in Italia, dalle telefonate private ai verbali della magistratura, sia mai stato davvero riservato.
Che bella idea: in Gran Bretagna, l’arresto dei colpevoli è quasi raddoppiato. E dunque perché innervosirsi, che cosa temere? Semplicemente, uno Stato che pretenda di schedarci nei segreti anche a noi sconosciuti, ci sgomenta. E non solo nel timore che in una deriva antidemocratica si possa fare, della schedatura, ciò che si vuole. No, anche nella normalità della convivenza civile, c’è qualcosa di sinistro in uno Stato che si impadronisca della nostra più profonda identità, che sappia tutto di noi. Funzionerà, per la prevenzione del crimine. Ma che odore di Grande Fratello, il giorno che tutti dovessimo depositare un frammento di pelle, per essere geneticamente censiti. È poi, questa banca, l’applicazione all’uomo di quella tendenza che si va facendo strada in altri campi: telecamere per strada per scoraggiare le infrazioni, pagamenti che lascino tracce, invece dei contanti, contro l’evasione fiscale. Per “prevenire” – è la logica avanzante – si controlla, ovunque, ciò che fanno tutti i cittadini.
Se ciascuno fosse seguito da una telecamera, certo, non ci sarebbero più reati. Saremmo tutti degli onesti coatti. È la deriva intuita da Eliot: «Sognando sistemi talmente perfetti, che non ci sia più bisogno di essere buoni». Cioè, di scegliere. Cioè, di essere uomini liberi. È l’incubo intuito da Churchill, che al docente universitario americano che nel 1949 annunciava il prossimo avvento di una capacità, grazie alla scienza, di controllo dei comportamenti degli uomini, rispose: «Splendido, ma per quel giorno io spero di essere già morto».
Rassegna Stampa
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