La pillola che ancora non c’è negli ospedali fa già male
Da tempo questo giornale ha lanciato la proposta di “fare un tagliando” alla legge 194, cioè di rivedere le modalità con cui quella normativa è applicata nel nostro Paese. L’idea è stata raccolta in modo bipartisan dalla classe politica, sia con la mozione presentata da Sandro Bondi, nel centrodestra, sia nel recente documento del centrosinistra, firmato da donne di diverso orientamento politico e culturale come Paola Binetti e Anna Finocchiaro. Un buon inizio, si direbbe: un’iniziativa concreta e condivisa in modo trasversale all’interno dei partiti, su un problema tanto importante, grave e sentito come quello delle maternità rifiutate. Peccato però che, a volte, sul territorio le cose vadano diversamente rispetto a quanto auspicato, per esempio per quanto riguarda l’aborto praticato con
Sappiamo che Silvio Viale, il ginecologo radicale responsabile della sperimentazione torinese della Ru486, potrebbe essere rinviato a giudizio per violazione della legge 194, proprio perché 38 donne coinvolte nella sperimentazione hanno abortito al di fuori dell’ospedale. Ma nel frattempo cosa è successo e cosa sta succedendo nei vari ospedali in cui si abortisce con questo metodo? Quante donne hanno abortito nel rispetto della legge? Per quante l’espulsione è avvenuta al di fuori delle strutture ospedaliere? Due anni fa, ad esempio, i lettori di Avvenire sono stati informati di una donna che, dopo aver assunto la Ru486 in un ospedale della Toscana, si è ricoverata con urgenza per emorragia al Policlinico Gemelli a Roma, ed è stata sottoposta ad un intervento chirurgico.
Nonostante un’interrogazione parlamentare, non c’è stato alcun chiarimento a proposito. È inutile quindi parlare di piena applicazione della legge 194, quando in molte regioni italiane la si viola sistematicamente ormai da tempo: praticamente dove si somministra la Ru486, spesso con l’appoggio di politici, un gran numero di aborti avviene a domicilio, in palese contrasto con
Rassegna Stampa
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