Il regista del silenzio di Dio
Come un Getsemani del ’900: domande brucianti di film in film
Antonio Block, il Cavaliere è in ginocchio, con gli occhi chiusi e la fronte corrucciata che prega, mentre il sole dell’alba si affaccia su un mare nebbioso. In alto, un uccello marino dissemina voli lenti e lancia un grido inquietante. All’improvviso ecco una figura vestita di nero, col volto segnato da un pallore impressionante. «Chi sei?», le domanda il Cavaliere. «Sono la Morte… è già da molto che ti cammino a fianco», risponde quella persona misteriosa. Ecco, è ancora così davanti ai miei occhi l’avvio del Settimo sigillo che vidi da giovane studente liceale, quasi una cinquantina di anni fa. Una scena e parole che sono rimaste infisse nella memoria mia e credo di tanti spettatori che hanno assistito alla partita a scacchi con cui il Cavaliere disilluso, reduce dalla crociata, cercherà di sfidare la Morte, ma che aprirà anche un orizzonte affollato di presenze: lo scudiero simile al Falstaff verdiano, l’attore, il fabbro, il mascalzone, la strega-bambina, e la coppia festosa dei giocolieri con il loro bambino, incarnazione dell’amore che vince la Morte. È, quindi, la storia umana nello spettro variegato delle sue iridescenze gelide e calorose ad essere sottoposta al giudizio, all’interno di quel «silenzio di circa mezz’ora» che irrompe all’apertura del settimo sigillo dell’Apocalisse, il libro-cardine dell’ispirazione di quel film. Fu quella la grande rivelazione per molti, credenti e agnostici e la prima lezione di un regista che aveva le vesti di un teologo agnostico. Il suo insegnamento per immagini proseguirà per anni inerpicandosi sui sentieri d’altura delle domande ultime nei cui confronti la filosofia balbetta e la stessa letteratura arranca. Il pensiero corre subito all’indimenticabile Posto delle fragole, un vero e proprio itinerarium mentis in Dio e nell’uomo, nel senso della vita e della morte, del sapere e dell’ignorare, dell’amore e della solitudine. Ininterrottamente, quasi in una sorta di corpo a corpo, Bergman si è infatti confrontato con le verità estreme che la superficialità dei nostri giorni cerca di narcotizzare. E lo faceva di film in film, ora lasciandosi sorprendere dalle teofanie di luce, ora e più spesso precipitando nello sconforto di una sconfitta perché l’Oltre e l’Altro si rivelavano troppo resistenti, oppure la contraffazione della fede e l’ipocrisia lo conducevano a uno scontro notturno e fin sarcastico con la religione (come non pensare a Fanny e Alexander). Eppure sempre egli ritornava alle vette ventose dello spirito o alle spiagge del mare livido infinito del bene e del male, della fede e dello scetticismo, dell’amore e del vizio, della libertà e del destino, della speranza e della disperazione, dell’evidenza e dell’assurdo, della luce e della tenebra, di Dio e di Satana. La sua era una teologia della domanda bruciante, sollecitata dalle sue radici protestanti pietiste. Egli forse non scopriva mai una risposta che fosse suggello alla sua interrogazione insonne; a noi invece – e non lo dico solo come teologo ma dando voce a tutti coloro che cercano il senso dell’esistenza con un cuore che batte – gli squarci di luce erano emozionanti così come fecondi erano i suoi silenzi e i suoi dubbi. Vorrei
a questo proposito evocare un’ulteriore esperienza personale, legata a una straordinaria trilogia bergmaniana, tutta dedicata al silenzio di Dio e alla crisi della fede, cioè Luci d’inverno, Come in uno specchio e Il silenzio. Vorrei solo fare riferimento al primo dei tre film, proprio perché ha al centro un ecclesiastico, uno dei non rari pastori luterani che s’affacciano nelle sceneggiature del regista di Uppsala. Il film è la storia di una crisi interiore che progressivamente ramifica la sua mano mortale nell’anima di un uomo di Chiesa che si sente sempre più il banditore pubblico di un prodotto religioso e non più il testimone di una fede. Una sensazione che traspare dalle parole dei suoi sermoni, tant’è vero che lentamente s’allarga attorno a lui il vuoto della comunità, capace di intuire che ormai egli non è più un annunciatore ma solo un propagandista professionale. Ma accanto a lui rimane uno dei «puri di cuore» evangelici, il sagrestano, persona semplice e luminosa. È lui a prospettare il dramma di Cristo nel Getsemani e sulla croce. Da un lato, ecco appunto l’incomprensione e l’abbandono degli amici, i discepoli che «abbandonatolo, fuggirono», come nota l’evangelista Matteo. Ma d’altro lato, ecco il momento ben più tragico, quello del silenzio del Padre che sembra ignorare il grido angosciato del Figlio, crocifisso: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Ecco in sintesi le parole di quel sagrestano: «Pensi al Getsemani, signor pastore, pensi alla crocifissione… Cristo fu preso come Lei da un grande dubbio, dovette essere quella la più crudele di tutte le sofferenze, voglio dire, il silenzio di Dio». Si potrebbe a lungo seguire la lezione teologica di Bergman intorno a questo grumo oscuro che fa parte del credere stesso, tant’è vero che percorre la storia persino del nostro padre nelle fede Abramo, mentre sale l’erta del monte Moria, accompagnato da quella voce divina mostruosa. Credere – lo insegna anche la pagina notturna e impressionante del duello di Giacobbe con l’Essere misterioso del racconto di Genesi32 – è una lotta aspra e ferrata. Bergman è uscito, come quel patriarca ebreo, ferito al femore, zoppicante ma non ha voluto affidarsi e fidarsi delle promesse di quella voce trascendente e divina. Egli è, a mio avviso, fratello di altri registi che – su strade differenti – hanno sperimentato lo stesso combattimento, registi che considero anch’essi a loro modo «teologi». Penso al cattolico «giansenista» Bresson che, però, pur nel deserto dell’assenza di Dio e del trionfo di Satana, fa sorgere il sole della grazia. Penso a Buñuel e alla sua disputa teologica nella Via Lattea, ma anche la statuaria presenza del suo Simeone nel deserto e all’ instancabile appello a Dio perché cerchi di esistere, essendo terribile una storia consegnata solo nelle mani dell’uomo. Penso a Tarkovskij, il regista delle straordinarie epifanie conquistate, come il suo Andrej Rublëv, attraverso il martirio lacerante di una crisi di fede. Penso provocatoriamente persino a Woody Allen che, sotto il manto lieve dell’ironia e della secolarità americana, conserva tante domande radicali dello spirito che tormentavano Bergman.
Rassegna Stampa
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