Il Presidente della Repubblica ricorda Aldo Moro nel “Giorno della memoria”
Si è svolta ieri al Palazzo del Quirinale la cerimonia per il primo “Giorno della memoria” istituito l’anno scorso e dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di uguale matrice; condotta da Mario Calabresi, alla commemorazione sono intervenuti il presidente dell'”Associazione tra i familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna”, Paolo Bolognesi; la studentessa del Liceo Classico “Arnaldo” di Brescia, Anna Ceraso, per il progetto “Memoria” che coinvolge gli studenti della città della strage di Piazza della Loggia; il Presidente dell'”Associazione italiana vittime del terrorismo e dell’eversione contro l’ordinamento costituzionale dello Stato”, Giovanni Berardi, e la signora Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, che ha espresso un grande ringraziamento al presidente della Repubblica per la coincidenza tra il “Giorno della Memoria” e l’anniversario dell’uccisione dello statista. L’attore Arnoldo Foà ha letto un brano del discorso del presidente Aldo Moro ai Gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana il 28 febbraio 1978, e un altro tratto da un articolo del Presidente Aldo Moro pubblicato su “Il Giorno” il 10 aprile 1977.
Il presidente Napolitano ha quindi pronunciato un discorso commemorativo dal quale traiamo quel che segue:
“Fu, in quel 16 marzo 1978, centrato dalle Brigate Rosse un obbiettivo forse impensabile, per il grado di organizzazione e il livello di audacia che comportava, ma non imprevedibile, dato il ruolo evidente e incontestabile di Moro nella vita politica nazionale, nella fase critica e cruciale che essa stava attraversando. Non si scelse un obbiettivo simbolico; si decise di colpire il perno principale del sistema politico e istituzionale su cui poggiava la democrazia repubblicana. Imprevedibili erano stati, e sarebbero stati ancora dopo, molti altri bersagli colpiti dalle Brigate Rosse con cieco furore ideologico: studiosi, magistrati, avvocati, giornalisti, amministratori locali, dirigenti d’azienda, commercianti, rappresentanti dei lavoratori, militari, uomini delle forze dell’ordine, e altri ancora, in una successione casuale e non facilmente immaginabile. Una successione perciò incalzante e angosciosa, che mirava a dare il senso dell’impotenza dello Stato, del vacillare delle istituzioni e della convivenza civile. In Moro i terroristi individuarono il nemico più consapevole, che aveva più di chiunque colto – nel ’68 – quel che si muoveva e premeva nella società, la crisi dei vecchi equilibri politici, il travaglio e la domanda di rinnovamento delle nuove generazioni, e quindi nel maggio ’77 aveva lanciato l’estremo allarme. Ci si trovava, così disse, dinanzi a “manifestazioni di violenza” che avevano “uno sfondo ideologico” e si collocavano “tra la lotta politica e la lotta armata”; di qui l'”apprensione per il logoramento” cui erano “sottoposte le istituzioni e le stesse grandi correnti ideali che credono nella democrazia”. Egli non dubitava dell'”esito finale” del confronto tra le istituzioni democratiche, tra le forze democratiche e le forze che conducevano “un così grave attacco portato nel cuore dello Stato”, ma era cosciente della durezza della prova, dell'”alto costo” e delle “distorsioni” che poteva comportare. Per quel che egli rappresentava storicamente – nella lunga vicenda della costruzione democratica e della lotta politica in Italia – e per quel che contava in quel momento come punto di riferimento ai fini di una risposta concorde all’offensiva terroristica e di una sapiente tessitura volta a rinnovare e consolidare la democrazia nel nostro paese, il Presidente della Democrazia Cristiana divenne la vittima designata, da catturare anche a costo dell’efferato sterminio della sua scorta – dei suoi “compagni di viaggio”- nell’agguato di via Fani, e fu quindi a lungo ristretto in una condizione fisica disumana, e sottoposto a una tremenda violenza psicologica.
Si sono di recente pubblicate attente ricostruzioni di quei fatti e analisi penetranti degli svolgimenti di una così inaudita e sconvolgente vicenda, dei comportamenti di tutti coloro che ne furono i diversi attori. Ma non è in questa sede e non è da parte mia che si possono esprimere giudizi conclusivi. Si può solo invitare – trent’anni dopo – alla riflessione profonda e dolorosa, alla ricerca non ancora conclusa, che anche questi nuovi contributi di osservatori e studiosi sollecitano; possiamo solo inchinarci con rispetto e commozione dinanzi alla tragedia vissuta trent’anni orsono da un grande protagonista della storia democratica dell’Italia repubblicana, dinanzi allo sforzo intellettuale e politico da lui dispiegato in uno stato di cattività esposto a continue pressioni e manipolazioni. Possiamo solo inchinarci dinanzi al suo tormento umanissimo, consegnato a lettere di straordinaria intensità per carica affettiva e morale. Fu tragedia non solo di un uomo, ma di un paese, di questa Italia che un grande maestro, Norberto Bobbio, volle ricordarci, dinanzi a simili eventi, essere, appunto, “un paese tragico”. Ci sarà ugualmente da riflettere ancora e a fondo – anche se molto si è lavorato, anche di recente, su questi temi – sulla genesi e sulla fisionomia dei fenomeni di stragismo e terrorismo politico di cui è stata teatro l’Italia : su come siano nati e via via cresciuti, su quali ne siano state le radici, i punti di forza, le ideologie e strategie di supporto. E c’è da augurarsi che si riesca ancora a indagare, anche in sede giudiziaria, su singoli fatti di devastante portata : che si riesca ad accertare pienamente la verità, come chiedono le Associazioni delle famiglie delle vittime. Quel che più conta, tuttavia, è scongiurare ogni rischio di rimozione di una così sconvolgente esperienza vissuta dal paese, per poter prevenire ogni pericolo di riproduzione di quei fenomeni che sono tanto costati alla democrazia e agli italiani. In effetti abbiamo visto negli ultimi anni il riaffiorare del terrorismo, attraverso la stessa sigla delle Brigate Rosse, nella stessa aberrante logica, su scala, è vero, ben più ridotta ma pur sempre a prezzo di nuovi lutti e di nuove tensioni. Si hanno ancora segni di reviviscenza del più datato e rozzo ideologismo comunista, per quanto negli scorsi decenni quel disegno rivoluzionario sia naufragato insieme con la sconfitta del terrorismo, mostrando tutto il suo delirante velleitarismo, la sua incapacità di esprimere un’alternativa allo Stato democratico. E se vediamo nel contempo – come li stiamo vedendo – segni di reviviscenza addirittura di un ideologismo e simbolismo neo-nazista, dobbiamo saper cogliere il dato che accomuna fenomeni pur diversi ed opposti:il dato dell’ intolleranza e della violenza politica, dell’esercizio arbitrario della forza, del ricorso all’azione criminale per colpire il nemico e non meno brutalmente il diverso, per sfidare lo Stato democratico. Occorre opporre a questo pericoloso fermentare di rigurgiti terroristici la cultura della convivenza pacifica, della tolleranza politica, culturale, religiosa, delle regole democratiche, dei principi, dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione repubblicana. E occorre ribadire e rafforzare, senza ambiguità, un limite assoluto, da non oltrepassare qualunque motivazione si possa invocare : il limite del rispetto della legalità, non essendo tollerabile che anche muovendo da iniziative di libero dissenso e contestazione si varchi il confine che le separa da un illegalismo sistematico e aggressivo”.
Rassegna Stampa
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