Il caso Lombardia
Secondo l’ordinanza del Consiglio di Stato, che giovedì scorso ha respinto il ricorso della Regione Lombardia contro la sentenza del Tar bocciando le linee guida sulla legge 194 emanate dalla Regione stessa, la legge sull’aborto è una norma «a contenuto costituzionalmente vincolato, in quanto diretta alla tutela di diritti fondamentali, in particolare di quelli della donna gestante e del nascituro». È questa la prima, perentoria e sacrosanta affermazione del documento, con cui si ricordano i soggetti di diritto tutelati dalla legge sull’interruzione di gravidanza: donna e bambino. Peccato che nelle successive considerazioni dell’ordinanza il secondo soggetto in questione venga meno. Il Consiglio di Stato spiega infatti come le misure lombarde, in particolare riguardo ai consultori familiari, siano «suscettibili di incidere […] sul delicato equilibrio delle procedure e delle valutazioni riservate alla donna e al medico professionista». E come spetti al «medico professionista la consulenza di altri specialisti» nel consulto alla donna. La donna, il medico. Il bambino è scomparso.
Vale allora la pena, prima di sollevare qualche perplessità, rinfrescarci la memoria. È il 22 gennaio 2008, e dopo un lungo e ponderato dibattito, il governo della Lombardia annuncia una svolta: stop agli aborti dopo le 22 settimane e 3 giorni e più risorse (per 8 milioni di euro) ai consultori pubblici e accreditati. Obiettivo: adeguarsi ai passi avanti compiuti dalla scienza e dalla medicina neonatale negli ultimi trent’anni e fornire alle donne in difficoltà per una gravidanza l’opportunità di un sostegno plurispecialistico che favorisca la rimozione degli ostacoli alla nascita del bambino (entrambi i punti sono previsti dal testo della legge). La decisione della Regione viene presa sulla base dei protocolli già sperimentati in cinque ospedali lombardi, tra cui le strutture all’avanguardia della Mangiagalli e del San Paolo di Milano (ospedali che, a scanso di equivoci, praticano anche aborti). Questi ultimi hanno – liberamente – introdotto codici di autoregolamentazione per limitare nel tempo il ricorso all’aborto terapeutico, visti gli sviluppi della neonatologia moderna che consente di far sopravvivere un feto nato ben prima della 24esima settimana. Il tutto in linea con il testo della 194 stessa – che vieta l’aborto oltre i 90 giorni nel caso in cui sussista la possibilità di vita autonoma del feto (concreta dopo le 22 settimane) – e perfettamente in linea con l’atto di indirizzo emanato dall’ex ministro della Salute Livia Turco il 25 marzo di quest’anno sull’assistenza neonatale ai prematuri, per cui il limite è stato abbassato addirittura a 22 settimane. Da un ministro dei Ds, dunque, contraddetta però dal ricorso della Cgil al Tar.
Le linee guida lombarde, in particolare per quanto riguardava il limite temporale dell’aborto, vengono accolte con favore dagli addetti ai lavori. Uno su tutti, Claudio Fabris, direttore di neonatologia del Sant’Anna di Torino e presidente della Società italiana di neonatologia, che spiega come il termine scelto dalla Regione fosse del tutto adeguato: «Nel corso degli anni – dichiara – sono molto migliorate le nostre capacità di assistere i neonati pretermine. Se all’epoca in cui è stata approvata la 194 si indicava di solito la 24esima settimana come soglia per la possibile vitalità del feto, oggi il quadro è molto cambiato e dalla 22esima in poi esistono probabilità sempre crescenti di sopravvivenza». Per questo proprio al Sant’Anna i ginecologi si sono dati un codice di comportamento e hanno fissato – anche loro – un termine diverso: 22 settimane e 6 giorni.
Sembra difficile, allora, comprendere oggi come le linee guida della Lombardia possano ledere i diritti garantiti dalla 194 ai nascituri – non è forse diritto di un feto sopravvivere se la medicina può salvarlo? – o come possano interferire con le scelte del medico, visto che sono stati gli stessi specialisti a scegliere e condividere queste linee guida in Lombardia e in altre Regioni, applicandole sulla base di codici di autoregolamentazione e nel rispetto della 194. Peraltro, accettare che questi stessi codici siano vigenti in alcune aziende sanitarie ma impedire che vengano estesi a livello regionale significa ribadire che la norma può essere applicata a discrezione dei singoli ospedali – e quindi in maniera disomogenea – sul territorio nazionale. A meno che in gioco non finiscano anche i protocolli – lecitamente sperimentabili – delle singole strutture sanitarie. Il che metterebbe in questione anche quelli sulla Ru486, ancora non riconosciuta nel nostro Paese, e su cui tuttavia non viene avanzata alcuna riserva.
Rassegna Stampa
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