Il braccio di ferro che divide la spagna
La folla di piazza di Saint Jaume a Barcellona chiede «Parlem!/Hablemos!», il sindaco della città Ada Colau riflette a mezzo stampa sulla polarizzazione dello scontro, la Borsa fa i conti dei sette giorni di ipotetica secessione (bruciati 20 miliardi di euro). Martí Anglada, rappresentante del governo catalano in Francia: «Ora l’apertura di un negoziato è nelle mani di signor Rajoy». Passata la sbornia del primo ottobre, una settimana dopo il referendum per l’indipendenza, la Catalogna pare rendere omaggio alla prudenza. Madrid tuttavia non si fida. Non tanto perché Plaza Colon oggi mostra cartelli «Con i golpisti non si dialoga», quanto perché le autorità dispiegano forze speciali a protezione di infrastrutture strategiche come l’aeroporto El Prat in vista di una possibile dichiarazione di indipendenza (l’agenzia stampa spagnola Europa Press cita fonti della polizia). Dichiarazione d’indipendenza sospesa dalla Corte costituzionale spagnola e ancora incerta visto che la prossima mossa di Puigdemont, presidente catalano e volto dell’indipendentismo, è comparire in Parlamento martedì 10 ottobre nonostante lo stop di Madrid.
Nel frattempo la piazza parla, il potere si arrocca, e arrivano segnali nuovi.
Ieri sera Artur Mas, ex presidente del governo catalano e indipendentista, a marzo interdetto dai pubblici uffici per due anni per aver organizzato un informale referendum per l’indipendenza nel 2014, non poteva dare un segnale più chiaro a colloquio con il Financial Times: la Catalogna non è ancora pronta per una «vera indipendenza». Mas parla nelle ore in cui le principali imprese della regione – Aigues de Barcelona (Agbar), la società mista che gestisce la distribuzione idrica a Barcellona, il comune detiene il 15%, ha spostato la sua sede sociale a Madrid con un consiglio di amministrazione straordinario – chiedono una marcia indietro delle autorità di Barcellona per evitare una rottura con Madrid la prossima settimana.
Mas frena anche se in realtà non recede dall’obiettivo. La Catalogna, dice, «ha guadagnato il diritto di diventare uno Stato indipendente» ma «per essere indipendenti ci sono cose che ancora non possediamo», come il controllo del territorio, la raccolta delle tasse e il sistema giudiziario. Inoltre , occorre rimanere pragmatici e prendere in considerazione qualsiasi reazione negativa di Madrid. «La questione ora è come eserciteremo questo diritto, e qui ci sono ovviamente decisioni da prendere. E questo decisioni devono aver soltanto un obiettivo in testa: non si tratta soltanto di proclamare l’indipendenza, ma di diventare realmente un paese indipendente».
Ada Colau, sindaco di Barcellona, è un’altra importante e diversa voce di questa storia. Ieri il consiglio comunale della capitale catalana ha approvato una risoluzione nella quale chiede le dimissioni del premier spagnolo Mariano Rajoy, del ministro degli interni José Ignacio Zoido e del delegato del governo
Enric Millo per avere attuato un “colpo di stato nascosto” in Catalogna.
La mozione è stata approvata con i voti dei partiti indipendentisti, l’astensione di Barcelona en Comù dello stesso sindaco Colau e il voto contrario di socialisti, popolari e Ciudadanos. Segno che la donna che guida Barcellona cerca di superare la contrapposizione che ha governato questa settimana di passione. «Bisogna cambiare i modi di fare politica, rinunciare allo spirito di partito, far sì che la cittadinanza prenda la leadership per portare avanti la sovranità, in modo che tutti ascoltino e si sentano ascoltati. Solo così il blocco verrà superato» dice al quotidiano La Vanguardia.
“Le autorità spagnole hanno iniziato a dispiegare forze speciali dei servizi di sicurezza in infrastrutture strategiche in Catalogna, come l’aeroporto El Prat, in vista di una possibile dichiarazione di indipendenza.”
«Non possiamo rassegnarci alla politicizzazione, alla logica binaria, al linguaggio guerrafondaio, alla logica della concorrenza che cerca la sconfitta dell’avversario» dice ancora Colau. È insomma il rifiuto a continuare una strada senza sbocco, quella dell’alternativa indipendenza-Rajoy che non porta da nessuna parte. Un sentimento che sembra essere condiviso da quanti oggi sono scesi in piazza a Barcellona.
La piazza di Barcellona non sembra però parlare la stessa lingua di quella a Madrid. Qui gli unionisti spagnoli manifestano «per la Difesa della Costituzione» a Plaza Colon (piazza Cristoforo Colombo), organizzatori una cinquantina di associazioni e fondazioni della società civile. I dimostranti, che innalzano migliaia di bandiere spagnole, gridano slogan come «Viva la Spagna», «Sono spagnolo» e soprattutto «Con i golpisti non si dialoga».
Invita alla neutralità, invece, la Chiesa cattolica. Una lettera-appello firmata dal vescovo monsignor Jaume Pujol e indirizzata a tutti i sacerdoti dell’arcidiocesi di Tarragona perché «in questo delicatissimo momento di incertezza per il futuro della terra catalana siano artigiani della pace, promotori di fratellanza, evitino di prendere qualsiasi presa di posizione che possa essere causa di contrapposizione e siano «elementi di unione e non divisione». E Mariano Rajoy? Il premier spagnolo ostenta certezze: «Il governo impedirà che qualsiasi
dichiarazione di indipendenza possa concretizzarsi in qualcosa – ha dichiarato a El Pais -. La Spagna continuerà ad essere la Spagna e sarà così per molto tempo».
Rassegna Stampa
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