Falciati via come per sbaglio in un tempo di atroce fretta
Le notizie peggiori, a volte, i giornali non le scrivono in prima pagina. Come ieri: bisognava arrivare nelle cronache interne per trovare un titolo a due colonne, la storia di un bambino di 11 anni che è stato trovato morto, impiccato nella cantina della sua casa in un paese del Vicentino. Nessun biglietto lasciato, nessun dramma nella vita del figlio di un agricoltore, tre fratelli, nessun problema a scuola. Tutto ciò che hanno scoperto i carabinieri interrogando amici e parenti è stato che il ragazzo si lamentava perché i compagni lo prendevano in giro per le orecchie a sventola. E tanto abissale è la sproporzione fra quel dispiacere e il cappio in cantina, che la reazione attorno a questa morte assurda è di dire:stato un gioco, non ha capito che cossi muore. Reazione umanissima, forse la sola possibile per chi quel bambino lo amava. E che non sa tollerare che si possa voler morire a undici anni – quando tutto deve ancora cominciare. Non sappiamo cosa sia accaduto davvero l’altra sera a Campiglia dei Berici, dove tutto – una grande famiglia, la campagna attorno, un paese in cui ancora tutti ci si conosce – sembrava fatto perché si potesse crescere felici. Sappiamo però che queste cose possono accadere, e accadono più spesso che un tempo.
Non è raro che notizie come quella del Veneto attraversino le cronache, giustamente ristrette in piccoli articoli a evitare il rischio tragico dell’imitazione.
Mai piccole abbastanza però perché chi ha dei figli non le noti, e non le legga con un tuffo al cuore. Undici anni, possibile? Possibile, innanzitutto se proviamo a ricordarci di come si è , in quell’età che volge l’infanzia verso l’adolescenza, ma spesso in modo disordinato, prima bruscamente il corpo, poi il cervello. Anche quando, attorno, c’è una casa, e un padre e una madre, e nessun dramma, abbiamo dimenticato il solitario adolescenziale soppesarsi allo specchio, guardando quella figura improvvisamente allungata, o troppo grassa, o troppo magra, comunque sgraziata, che mai – in quanti ce lo siamo detti – potrà essere bella, o almeno normale? Ne ridiamo poi, vent’anni dopo. Ma non si ride, a dodici anni, se ci si crede brutti o ridicoli. E non per uno sciocco narcisismo, ma perché tutti quei pensosi esami non tendono in fondo che a rispondere a una domanda: a uno così goffo, o secco, potrà mai qualcuno volere bene? Si è così, a quell’età. Che perviene oggi spinta sempre più all’indietro, verso le soglie dell’infanzia, come se non ci fosse più il tempo per lasciare i bambini essere bambini. A dodici anni in tanti sembrano fisicamente già grandi. Bambine per le madri, e donne per quelli che le guardano per strada. Bambini alti e autonomi, bambini che sanno già tutto, e sbadigliano davanti a una scena di sesso in tv: e tuttavia, bambini. Si sa che per i bambini piccoli la dimensione del futuro non esiste. Esiste solo l’oggi, l’adesso. È crescendo, che si impara a mediare le sconfitte dicendo: cambierà, domani. A undici anni, oggi, si pudimostrarne quattordici, ma non sapere, davanti a uno scherzo cattivo, davanti a un “no” da poco, capire che la vita non finisce per questo. Che, anzi, la vita a undici annitutta da cominciare.
La domanda dell’adolescenza, che è una domanda totale, può porsi in questa generazione quando sei alto quasi come un uomo, ma hai la fragilità dei tuoi anni veri. È la sorte di questi figli ipernutriti, esposti fin dall’infanzia a una tv che parla a adulti e bambini con le stesse parole. Adulti all’apparenza, ma solo dal fuori. Capaci anche, nel dolore di una delusione cocente, di fare come fanno a volte i grandi, quando hanno fallito tutto. Capaci di essere disperati per qualcosa che gli altri nemmeno sanno d’aver detto. Falciati via come per sbaglio, in un tempo che esige che si cresca troppo in fretta.
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