Discutere si può, anzi si deve. Ma al bando il terrorismo culturale
Si può – meglio: si deve – discutere a fondo della riforma della scuola. Esaminare le ragioni che spingono a intervenire, l’adeguatezza o meno delle scelte, fare i conti con le risorse disponibili. E su questo confrontarsi, gettando sul tavolo carte, stime e raffronti con la situazione di altri Paesi. Poi scontrarsi sul piano politico, certo, com’è legittimo, fisiologico e anzi salutare in una democrazia. Ciascuno forte della propria convinzione, aperto però a riconoscere piena legittimità alle posizioni dell’altro. Evitando, al contrario, di cedere alla tentazione di alzare artificialmente i toni, di diffondere il panico, di gridare al disastro prima ancora che vi sia la minima avvisaglia che esso possa poi realmente accadere. A volte diffondendo notizie false, spesso prescindendo dai dati di fatto.
Finendo così per trasformare una questione di vitale importanza per il Paese e per ciascuno di noi, nella miccia di una “guerra civile” per la quale, oltre ai sindacati, si mobilitano eserciti di mamme e bambini “resistenti”, che occupano scuole, finiscono per diffondere messaggi impropri e allarmanti: “il tempo pieno è cancellato”, “dimezzati gli insegnanti di sostegno”, “il maestro unico arriverà anche alle materne, che chiuderanno all’ora di pranzo”. E via dicendo per le università, la scuola superiore, l’intera istruzione trasformata d’un colpo in distruzione…
Aveva probabilmente questo in mente il Presidente della Repubblica quando ieri – ricevendo una delegazione di alunni e studenti nella tenuta di Castelporziano – si è sentito rivolgere una domanda a proposito dei cambiamenti previsti nella scuola. Un quesito che già diceva molto, per com’era formulato: “Caro Presidente, cosa ne pensa dei decreti con i quali molti insegnanti perderanno il lavoro? Cosa ne sarà dei loro figli?”, ha chiesto una bambina di una scuola di Milano, chissà se così preoccupata di suo o “imbeccata” a dovere. Tanto che al Capo dello Stato dev’essere parso evidentemente prioritario richiamare tutti a una maggiore serenità negli interventi e nell’azione politica-sociale, “senza farsi prendere da nessuna esagerazione e da nessun allarme”. Perché “certamente ci sono alcune cose da cambiare nella nostra scuola che non dà ai ragazzi tutto quello che dovrebbe”. Perciò occorre discutere: “Non si possono dire soltanto dei no, né farsi prendere dalla paura”, anche se si “può essere d’accordo su alcuni cambiamenti e non su altri”.
Un messaggio, questo, che non casualmente arriva a pochi giorni di distanza dall’ultima nota ufficiale riguardante proprio il tema della scuola.
Quando il Quirinale fu in qualche modo costretto a ricordare che il Presidente della Repubblica non può bloccare i decreti del governo in discussione al Parlamento, come chiedeva un’insistente campagna condotta a suon di e-mail e messaggini sms. Un improprio tentativo di strumentalizzare la presidenza della Repubblica, al quale Giorgio Napolitano si è sottratto in maniera trasparente e aderente alla Costituzione.
Bando al “terrorismo culturale e sociale” dunque, che non fa salvi neppure i bambini, sempre più strumentalizzati. È ovvio, però, che la serenità va alimentata anche e soprattutto da parte del governo.
La scelta di agire per decreto non ha di certo agevolato il dialogo, che ora invece va accresciuto sia nei confronti dell’opposizione politica sia delle organizzazioni sindacali, concentrandosi sui contenuti. Evitando la tentazione di chiudere tutto con un voto di fiducia “ammazza-dibattito”. Le preoccupazioni di coloro che nella scuola vivono e lavorano devono avere piena agibilità, così come l’apporto di idee che possono fornire. Ricordando – come sembra aver voluto sottolineare il Presidente – che la civiltà di un confronto si misura sempre sulla disponibilità di ciascun soggetto a compiere un passo verso le ragioni dell’altro, senza criminalizzarlo né disconoscerne il valore. In piazza come in Parlamento.
Rassegna Stampa
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