Discriminata per la croce che porta al collo
E’ finito davanti alla Court of Appeal londinese un altro celebre caso di discriminazione nei confronti dei cristiani in Gran Bretagna.
Nadia Eweida, una cinquantottenne impiegata delle British Airways, non si è arresa di fronte al verdetto del Tribunale del Lavoro che ha respinto il suo ricorso.
Questi i fatti.
Nel settembre 2006 Nadia Eweida, addetta al servizio di check-in presso il terminal 5 dell’aeroporto di Heathrow, si vede intimare dalla direzione della compagnia aerea di non indossare, durante l’orario di lavoro, la collanina con la croce che portava al collo. Il rifiuto da parte della dipendente, motivato da sue profonde convinzioni religiose e dal fatto che i segni distintivi di altre fedi venivano invece permesse dalla compagnia, non viene preso molto bene.
Infatti, senza tanti complimenti, Nadia Eweida viene licenziata il 20 settembre 2006, con la motivazione che la sua croce d’argento, non più grande di una moneta da 5 pence, appare contraria alla «company’s uniform policy». Le 49 pagine di dettagliate istruzioni sull’uso delle uniformi e dei gioielli delineavano, infatti, una filosofia aziendale impostata sull’assoluta “neutralità” nei confronti delle convinzioni personali dei dipendenti. Questo non impediva, però, agli impiegati sick di indossare il turbante ed alle impiegate mussulmane di coprirsi il capo con la hijab. Tali comportamenti, in realtà, venivano espressamente autorizzati in quanto trattavasi di adempimenti previsti come obbligatori da una fede religiosa.
Il caso, come è ovvio, fa insorgere l’opinione pubblica, che si divise pro e contro l’impiegata cristiana. Da una parte, i laici atei della National Secular Society, che plaudono il licenziamento di Nadia Eweida ravvisando nella sua pervicacia ad ostentare la croce sul posto di lavoro un odioso tentativo di “evangelizzazione” dei clienti. Dall’altra parte, coloro che gridano alla discriminazione dei cristiani ed invocano per Nadia Eweida il diritto di indossare la catenina con la croce, come espressione della propria libertà religiosa.
La donna, in realtà, ottiene un sostegno anche da autorevoli personalità del mondo politico e religioso. Persino l’allora premier Tony Blair si espone pubblicamente in suo favore consigliando British Airways di utilizzare il “buon senso”, ovvero autorizzare l’uso della collanina e di non insistere nella posizione assunta. Aggiunge pure un altro suggerimento, acquisito – sostiene – dalla sua esperienza politica, ovvero che «ci sono battaglie che non meritano di essere combattute», lasciando intendere che quella della compagnia di bandiera contro Nadia Eweida era una di tali battaglie. All’invito di Blair si associano più di cento parlamentari bipartisan.
Durissima anche la reazione dell’Arcivescovo di Canterbury che da Roma, dove si trovava in visita dal Papa, dichiara di essere profondamente indignato per il fatto che si sia potuto ritenere “offensivo” il simbolo cristiano della croce. Arriva addirittura a minacciare il boicottaggio della compagnia aerea da parte dei cristiani e persino il disinvestimento dei fondi finanziari della Chiesa anglicana investiti in azioni British Airways.
Le forti pressioni politiche, la pessima pubblicità da parte delle autorità religiose (oltre la minaccia di “ritorsioni” economiche), inducono la compagnia aerea a rivedere, obtorto collo, la posizione inizialmente assunta. Così, viene introdotto nelle linee guida sull’utilizzo delle uniformi un criterio di “flessibilità” di modo che, seppur non esplicitamente, si possa comunque tollerare l’uso di una collanina con la croce.
British Airways il 3 febbraio 2007 arriva persino a reintegrare, cinque mesi dopo, nel proprio posto di lavoro Nadia Eweida ma, non volendo ammettere di aver commesso un atto discriminatorio, la compagnia non riconosce, comunque, alla dipendente il diritto agli arretrati degli stipendi non percepiti nel periodo di licenziamento.
Nadia Eweida, a questo punto, intende ingaggiare una battaglia legale per far valere i propri diritti.
Da qui il ricorso al giudice del lavoro (Employment Appeal Tribunal, EAT), che nel novembre 2008, le dà torto non riconoscendo alcuna forma di licenziamento discriminatorio nei suoi confronti e dichiarando legittimo l’operato della British Airways. Singolare la motivazione. Dopo aver precisato di non essere un «tribunale religioso» (“tribunal of faith”), i magistrati hanno sbrigativamente liquidato la questione sostenendo che «per i cristiani mettersi al collo una croce non è “generalmente” considerato un precetto religioso».
Nadia Eweida non si arrende e impugna la decisione.
Lo scorso gennaio si è svolta l’udienza davanti alla Court of Appeal di Londra. Queste le tesi contrapposte.
Il legale di Eweida, la combattiva avvocatessa Karon Monaghan, sostiene il diritto della propria assistita ad indossare una piccola, semplice croce d’argento «come manifestazione visibile del proprio credo ed espressione personale della propria fede». Invoca, poi, l’art. 9 della Convenzione europea sui diritti del’uomo e le vigenti normative britanniche in materia di tutela delle pratiche e delle convinzioni religiose dei dipendenti, l’Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003. Evidenzia, inoltre, la disparità di trattamento compiuta dalla British Airways nel «permettere l’utilizzo di simboli religiosi visibili per i credenti in altre fedi, come ad esempio il kara, braccialetto sacro dei Sikh, il kippah, copricapo degli ebrei, o la hijab, velo per le donne musulmane». British Ariways, infatti, si è vista bene dal vietare simili forme esteriori di fede.
Singolare la tesi difensiva della compagnia aerea. L’avvocatessa Ingrid Simler si rivolge alla Corte sostenendo che «l’esibizione della croce al collo non è richiesta come precetto dalla religione cristiana ed è quindi frutto di una scelta individuale e non obbligatoria rimessa al mero desiderio della Eweida». Ma l’avvocatessa si spinge oltre – fino al limite dell’irriverente –, quando dichiara che «il simbolo utilizzato dalla Eweida deve intendersi come espressione di una semplice convinzione allo stesso modo dei simboli utilizzati da altre persone per manifestare contro il nucleare o in favore dei diritti degli omosessuali».
All’udienza sono presenti diversi sostenitori di Nadia Eweida e qualche parlamentare.
C’è pure l’ex Ministro degli Interni John Reid, il quale, prendendo la parola fuori dall’austero palazzo di stile gotico-vittoriano che ospita la Court of Appeal, dichiara: «Questo caso rappresenta un chiaro indicatore del fatto che i cristiani non godono delle stesse protezioni previste dalla legge per i fedeli di altre religioni a cui viene garantita, nel posto di lavoro, la massima disponibilità per quanto riguarda l’abbigliamento e l’esibizione di simboli religiosi».
Anche Nadia Eweida, subito dopo l’udienza, rende una dichiarazione: «Io ho combattuto questa battaglia legale fino alla Corte d’Appello per difendere il diritto dei cristiani a portare indosso una croce. E’ triste constatare come British Airways non si renda conto e non riesca a percepire che proprio la croce è il simbolo per eccellenza della fede cristiana».
Lo scorso venerdì 12 febbraio, la Corte d’Appello londinese, con una sentenza più che prevedibile, ha respinto il ricorso di Eweida.
Patetica l’uscita di Lord Justice Sedley, uno dei giudici d’appello, che dopo aver ribadito l’inopportunità di esibire simboli religiosi nei luoghi di lavoro, ha dichiarato che, tutto sommato, «non è impensabile che in alcuni casi un divieto generale rappresenti l’unica soluzione».
Peccato che l’ultima sentenza dell’Alta Corte in materia abbia ribadito il fatto che la proibizione ad una ragazza sikh di portare a scuola il “kara”, braccialetto sacro, integri un vero e proprio atto di discriminazione religiosa.
Qual è la differenza tra una croce ed un kara? Semplice. La reazione dei discriminati. Non è facile gestire politicamente le veementi proteste della comunità sikh o di quella islamica, mentre i cristiani hanno da sempre dimostrato di essere assai più “tolleranti” rispetto alle ingiustizie patite. Fa parte, del resto, del loro stesso DNA.
La morale di questa storia dovrebbe farci riflettere.
Mentre da noi in Italia si discute se esporre o meno il crocifisso nei luoghi pubblici, in Gran Bretagna la magistratura ha già deciso che ad un cristiano si può impedire di portare al collo il simbolo della propria fede sul luogo di lavoro. Se consentiamo che la tolgano dai muri, arriveranno a levarcela anche di dosso.
Gianfranco Amato, Presidente di Scienza e Vita di Grosseto
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