Denunce, cautele e distrazioni. Luci su Pechino Buio sul Tibet
Da notizie ancora da verificare, mentre tutto il mondo stava ancora festeggiando le grandi imprese olimpiche, le forze di sicurezza cinesi massacravano un numero imprecisato di tibetani nella provincia di Kham. Con la consueta prudenza, il Dalai Lama ha rettificato il testo dell’intervista diffusa da ‘Le Monde’ che gli attribuiva la paternità del numero delle vittime (140). Difficile immaginare che il Dalai Lama o il quotidiano francese si siano inventati il fatto dell’eccidio e la sua consistenza. Difficile anche che si sia trattata di un’abile “polpetta avvelenata” confezionata dai servizi cinesi, considerato come Pechino abbia fatto di tutto per oscurare il Tibet in queste settimane.
Più probabile che alcune dichiarazioni siano state fatte, o commentate, off records, e che anche questa volta il Dalai Lama non abbia voluto mettere in ulteriore difficoltà il presidente Sarkozy (di cui oggi dovrebbe incontrare la moglie e il ministro degli Esteri).
Proprio il clamore della notizia e della sua parziale precisazione, apre però uno squarcio di luce sulla drammatica vicenda della repressione cinese in Tibet.
Parliamoci chiaro: nessuno si aspetta più che il “fuoco di Olimpia” sia in grado di far tacere i cannoni. Qualora ce lo fossimo scordati, la guerra lampo tra Georgia e Russia ha rappresentato un efficace memento.
Ma non era mai capitato che il Paese organizzatore di Giochi non si preoccupasse di fermare i suoi soldati nel periodo di svolgimento della manifestazione. Pechino aveva lasciato intendere che avrebbe rispettato una sorta di tregua olimpica in Tibet, nel quale del resto l’ondata repressiva era stata inasprita dopo i disordini scoppiati in marzo.
Preoccupate di un possibile flop d’immagine, le autorità cinesi si erano spinte fino ad allacciare contatti con il Dalai Lama, il quale aveva da parte sua generosamente invitato il mondo a non boicottare i Giochi. Da più parti ci si era nuovamente illusi che sotto i riflettori dell’intero pianeta, i cinesi avrebbero se non altro allentato la violenza della repressione. Speranza mal riposta, se da marzo ai giorni delle Olimpiadi, solo nella regione di Lhasa, 400 tibetani sarebbero stati uccisi e a migliaia sarebbero scomparsi nel nulla.
Le notizie che rimbalzano da Parigi ci dicono almeno due cose. La prima, amaro epitaffio del nostro disincanto, è che nell’era dell’informazione globale e della rete, un potere sufficientemente determinato a utilizzare senza scrupoli tutti i mezzi a sua disposizione può tranquillamente accendere lo sfavillio di mille luci colorate a Pechino e chiudere il Tibet nella morsa delle tenebre. Non è la Cina a essere sotto i riflettori. Ma solo la dorata vetrina che il governo vuole mostrare agli occhi del mondo, perché nello stupore di quegli occhi si specchino i suoi docili sudditi. La seconda, ancora più preoccupante,che i cinesi semplicemente non hanno nessuna intenzione di conformarsi alle aspettative delle democrazie liberali.
La loro forza si fa sempre più consapevole, e con la consapevolezza si fa strada l’arroganza. Per cui, pur sapendo che prima o poi le notizie di eventuali massacri sarebbero saltate fuori, è stato possibile valutare che il clamore e le eventuali reazioni sarebbero state coperte dalla festa olimpica.
Il punto è che rischiano di aver ragione, con buona pace di quanti auspicavano che il percorso verso e dentro le Olimpiadi avrebbe rappresentato una chance di apertura per il regime.
Riflettendo sul “dialogo” instaurato dal governo cinese con il Dalai Lama in questi mesi, si rafforza purtroppo la sensazione che esso abbia assolto una mera funzione strumentale, una cortina fumogena stesa senza neanche troppa convinzione, mentre si apparecchiavano ben altre “soluzioni” alla questione tibetana, al punto che vien da chiedersi se la concezione cinese del dialogo non consista, semplicemente, nel “guadagnar tempo”, per poter poi continuare a fare ciò che si vuole. Ora qualcuno osserverà che sarebbe sbagliato “isolare” o “demonizzare” oggi la Cina (e ieri la Russia). E non possiamo che concordare. Ma su questo punto occorre essere chiari e ribadire che i timori verso la Cina non riguardano la sua straordinaria crescita di ruolo, ma il suo regime politico, lo spregio che dimostra per le libertà fondamentali e il totale controllo che esso esercita sulla società. Che il lento tramonto della supremazia globale americana veda il possibile sorgere (o risorgere) di sistemi in cui il potere politico interno non conosce limiti è una pessima notizia. E mentre è un sano esercizio di realismo prendere atto della realtà per quel che è, fingere che possa andarci bene o rassegnarci alla sua immodificabilità, sarebbe semplicemente un atto di stoltezza e di viltà.
Rassegna Stampa
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