Da scimmia a uomo: l’enigma del «salto»
I nodi insoluti dell’evoluzione: a confronto ieri a Torino il paleoantropologo Fiorenzo Facchini e il genetista Guido Barbujani
Basta poco, basta mettere da parte per un attimo gli steccati ideologici, per riportare il confronto tra credenti e non credenti nei proficui binari di un dialogo pacato e costruttivo. Ne hanno dato un ottimo esempio ieri, a Torino Spiritualità, l’antropologo e sacerdote Fiorenzo Facchini e il genetista dichiaratamente non religioso Guido Barbujani, che al Teatro Gobetti si sono confrontati su «Evoluzionismo, darwinismo e Intelligent Design: storie di prospettive e contrasti».
Un dialogo che ha fatto emergere le differenze che permangono tra la prospettiva religiosa e quella che non guarda al trascendente, ma senza degenerare in battaglie campali condite dalle fin troppo facili accuse di oscurantismo che, trito ritornello, i laicisti più scaldati non si stancano di lanciare contro chiunque non si rassegni a consegnare, come loro, l’uomo e il mondo al dominio del cieco caso.
Facchini ha subito puntualizzato la distanza tra l’evoluzione, «fatto appurato anche se dalle modalità non ancora del tutto chiarite», e l’evoluzionismo, «dottrina costruita sull’evoluzione e che la inserisce in una visione dell’uomo e del mondo che non è più derivata esclusivamente da aspetti scientifici». Allo stesso modo, ha puntualizzato, «un conto è la creazione, evento che si raggiunge non con la scienza, ma con la filosofia; e un conto è il creazionismo, una certa visione della creazione che può sì essere, quale la sostengo io, aperta all’evoluzione, ma può anche chiudersi a riccio, come certe posizioni americane, o quasi, come nel caso dell’Intelligent Design, sempre di matrice statunitense. Alla fine, anche questa posizione si riporta a un creazionismo puro».
Puntualizzazioni, queste, che Barbujani sottoscrive senza remore, aggiungendo anzi che «l’evoluzionismo è figlio di Darwin, ma non è Darwin che, per esempio, era privo degli strumenti genetici che oggi abbiamo a disposizione. Analogamente, l’Intelligent Design oggi proposto negli Usa è una versione aggiornata del vecc hio creazionismo, che si puntella su quegli aspetti ancora oscuri del mondo naturale sostenendo che la scienza non potrà mai arrivare a spiegarli. E che quindi rimandano a un Progettista intelligente».
Una posizione, questa, della quale lo stesso Facchini sottolinea la pericolosità, «sia filosoficamente sia religiosamente. Perché se si riduce Dio a un ruolo di esplicazione degli attuali limiti della scienza, un domani, quando l’indagine umana avrà colmato qualche lacuna, il divino verrebbe relegato ancor più ai margini. Qui si confondono i piani, mentre le lacune scientifiche non si colmano con la religione. Non soltanto l’Intelligent Design non è scienza, ma rende anche un cattivo servizio alla religione. Tutto questo, fermo restando che è più che legittimo affermare che Dio ha un progetto sulla creazione. Semplicemente, si tratta di un altro piano».
Che quella sull’Intelligent Design sia più una questione politica che scientifica, lo conferma il genetista dell’Università di Ferrara, lamentando il pessimo clima che il dibattito, «malamente importato in Europa», ha generato: «I rapporti tra evoluzione e cattolicesimo, anzi, sono sempre stati ottimi, da Teilhard de Chardin in giù. Ricordiamo la famosa lettera di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze, dove assumeva l’evoluzione come un dato di fatto. Poi, accanto a questo, ci sono le domande sul bene, sul male, sulla finalità: qui la scienza non ha nulla da dire, è il campo della filosofia e della teologia». È a questo punto che Facchini rilancia la sua proposta di concentrare la riflessione non sul pericoloso e dubbio concetto di «disegno intelligente», ma su quello più ampio di «progetto superiore» [proposto per la prima volta su Avvenire del 2 agosto scorso, ndr]: «Un progetto che non si limita alla natura, ma che abbraccia l’intera progettualità divina sul creato».
Un’apertura al trascendente sulla quale Barbujani, scienziato non religioso, ammette lealmente di non aver nulla da dire, riconoscendo anzi che «sono domande profondamente insite nella nostra mente». Facchini procede a sviluppare la sua argomentazione, ricordando come «tra l’uomo e l’animale c’è un salto ontologico: noi non possiamo derivare nella nostra totalità, con la nostra spiritualità, dalle grandi scimmie. Qui c’è uno scarto, qui emerge Dio come concausa dell’evento-uomo. C’è una discontinuità irriducibile, ed è la cultura. Quando Darwin negò un simile salto, parlando piuttosto di semplice differenza di grado, sconfinò nell’ambito della filosofia». Barbujani conferma che «la scienza non ha elementi per testare eventuali salti ontologici», ma obietta: «Le differenze tra uomo e animale paiono sempre meno evidenti, abbiamo evidenze di “cultura” anche tra le scimmie superiori. È difficile tracciare una linea netta tra noi e gli altri animali, anche se non ci sono dubbi sulla disparità quantitativa tra la nostra cultura e la loro».
Il problema però, ha ribattuto Facchini, è intendersi su che cosa si debba intendere per “cultura”: «Oggi parte degli scienziati tende a estendere questo concetto, includendoci tutto ciò che non è geneticamente determinato: così facendo, la si può rintracciare anche tra gli animali. Ma questa definizione di cultura umana non coglie quanto c’è di specifico nell’uomo: la capacità di progettare, e la capacità di elaborare simboli». Eccole, le differenze di prospettiva tra una scienza ispirata al trascendente e una che non lo è. Nette e marcate. Ma che non hanno nessun bisogno di aggredire per affermarsi.
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