Cristiani a Sarajevo
Sarajevo è un po’ lo specchio del Novecento. I destini del cosiddetto “secolo breve” si sono spesso incrociati con questa città, capitale della Bosnia ed Erzegovina. Città ricca di storia, di etnie. E di sangue. Qui, nel 1914, fu premuto il grilletto che innescò il primo conflitto mondiale. E qui, caduto il muro di Berlino, si è assistito a un massacro di proporzioni impressionanti le cui ferite sono lontane dall’essere rimarginate. Dal 1991 a guidare la comunità cattolica di questa città – che Giovanni Paolo II per la compresenza di numerose etnie e tradizioni religiose definì la “Gerusalemme d’Europa” – è l’arcivescovo Vinko Puljic, che nel 1994, a soli 49 anni, fu insignito della porpora da Papa Wojtyla, primo cardinale della Bosnia ed Erzegovina. E, allora e per 9 anni, il più giovane rappresentante del collegio cardinalizio. Testimone, inerme e coraggioso, di quegli orribili massacri – in Bosnia ed Erzegovina si è sparato dal 2 aprile 1992 al 18 novembre 1995 – Puljic è oggi come allora in prima fila nel denunciare le violazioni della dignità umana e le ingiustizie. Durante la guerra non abbandonò mai la sua città neanche durante l’assedio e sotto i bombardamenti. Scampato a tre attentati – di cui uno quando il conflitto era già concluso – finì anche nelle mani delle milizie serbe. In quel tragico contesto s’impegnò personalmente, a rischio della vita, visitando le parrocchie, incoraggiando la gente, assistendo le vittime della pulizia etnica attraverso appelli drammatici e accorati alla comunità internazionale. E oggi con lo stesso piglio non smette di alzare la voce per segnalare, in primo luogo alle autorità del suo Paese, alcune ingiustizie e un clima di tensione che sembra voler soffocare il faticoso dialogo tra le religioni, in particolare con la maggioranza islamica. “A livello del popolo semplice non è difficile parlare, avere contatti, dialogare. Tanti del popolo semplice, quando vado in cattedrale mi salutano. Sono musulmani. Ma c’è un clima di tensione che viene dai media e dalla politica”, dice il porporato che continua a inseguire il sogno di una convivenza. La testimonianza, in un buon italiano – “non l’ho studiato, ho solo ascoltato Radio Vaticana” – è raccolta in un libro intervista realizzato dallo storico Roberto Morozzo della Rocca (Vinko Puljic, Cristiani a Sarajevo, Milano, Paoline, 2010, pagine 152, euro 13). Puljic svela i tratti unici e profondi del cattolicesimo in questo tormentato Paese dei Balcani. Una presenza nata dalla fusione di elementi bosniaci, croati e romani e soprattutto con l’anelito a convivere pacificamente con le altre comunità etniche e religiose del Paese. Tuttavia, il “motivo sotteso” alla conversazione – spiega Morozzo della Rocca – è la “grave crisi della presenza cattolica in Bosnia ed Erzegovina”.
Nel 1991, alla vigilia della guerra originata dal processo di dissoluzione della Jugoslavia, i cattolici erano 820.00, il 17 per cento della popolazione. Oggi, sono appena 460.000, il 9 per cento degli abitanti. Nel frattempo i serbi, di tradizione ortodossa, sono passati dal 33 al 37 per cento e i musulmani – bosgnacchi – hanno superato il 50 per cento. A Sarajevo sono addirittura il 90 per cento. Cosa è accaduto? Puljic azzarda delle risposte, anche scomode. E fornisce delle spiegazioni a questa forma di pulizia etnica, incruenta, a questo esodo silenzioso che sta svuotando la presenza cristiana a Sarajevo. La capitale della Bosnia ed Erzegovina oggi non è più la “Gerusalemme d’Europa” d’un tempo, quando, prima della guerra, vi convivevano ben 13 etnie. Oggi – dice – è tutto “in una sola mano”. La piccola comunità cattolica – solo 13.000 anime contro le 90.000 dei primi anni Novanta – incontra difficoltà immense. Ottenere i permessi per costruire una chiesa è quasi impossibile. Ma è nella vita di tutti i giorni, nel lavoro, nell’assistenza sanitaria, nei rapporti con l’amministrazione che i cristiani vengono penalizzati. E questo nei fatti costringe i cattolici a emigrare, a lasciare la propria terra e tentare la fortuna altrove. “Siamo formalmente uguali, ma chi è più forte è più uguale”, afferma il porporato. Che ha parole severe con le istituzioni internazionali. “L’Europa – avverte – dovrebbe vigilare sui diritti delle minoranze e invece è inerte; lo è stata prima, durante e dopo la guerra. Inerte. L’Europa aspetta sempre”. Perché, purtroppo, “in Europa esiste una cristianofobia o cattolicofobia. Quando si chiede qualcosa in favore dei cattolici nessuno vuole aiutare”. Anche il capitolo degli aiuti internazionali è assai critico. “Non esiste alcun appoggio per rimanere qui con gli altri, a convivere con i musulmani”. Gli unici aiuti sono “dalla gente comune e da enti privati” come le fondazioni della Chiesa cattolica tedesca “Renovabis” e “Kirche in Not”. Puljic ritorna anche sugli errori del passato che portarono alla guerra. “Il primo peccato della comunità internazionale è stato la volontà di custodire la Jugoslavia”, poi l'”appoggio alla Serbia” e infine “l’embargo contro il popolo povero da difendere”. E conferma le perplessità sul presente. A partire dall’accordo di Dayton che “ha aiutato molto per far cessare la guerra, ma non ha creato una pace giusta”, dividendo il Paese in due parti, la Federazione croata-musulmana e la Repubblica Srpska.
Per superare le difficoltà e l’acrimonia di certo radicalismo islamico che propaganda l’odio contro i cristiani – “Da 10 anni nel tempo di Natale vengono distribuiti volantini che avvisano: per un vero musulmano è proibito fare gli auguri di Natale” – la strada è quella intrapresa dal consiglio interreligioso che riunisce rappresentanti cattolici, ortodossi, musulmani ed ebrei. “Non possiamo risolvere tutto, ma parliamo. Non c’è consenso su tutto. Quando c’è accordo su qualcosa, andiamo avanti. Quando non c’è aspettiamo”. In questo modo è stato preparato un testo, poi sostanzialmente recepito dal Parlamento, sulla libertà e sui diritti delle religioni, come pure si sono forniti preziosi suggerimenti sull’insegnamento della religione nelle scuole. “Bisogna parlare da uomini – conclude – da vicini, da uguali. Bisogna parlare un altro linguaggio, un linguaggio civile, democratico. E trovare princìpi per cui la sicurezza di uno è la sicurezza dell’altro”.
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