Che brivido di freddo sotto il sole di Bologna
C’è qualcosa che mette addosso inquietudine se un sabato, in una piazza gremita, qualcuno tiene banco fra gli applausi, gridando una parola che, per rendere esattamente il clima di quella piazza, occorre riportare: «Vaffanculo», urla Beppe Grillo, proiettando il suo anatema su 360 gradi. Al diavolo, tutti: governo, ministri, onorevoli. Di sinistra? Di destra? Non importa, la distinzione in Piazza Maggiore sembra definitivamente morta, come quella bandiera rossa alzata tra il pubblico, che il comico ordina di ammainare. Perchè le bandiere sono emblema dei partiti, e, dice Grillo, i partiti sono «il cancro della società, li voglio distruggere». È proprio quell’ansia di distruggere, quel “vaffa” ripetuto davanti a una folla entusiasta, ciò che anche al più “antipolitico” degli italiani dovrebbe mettere un brivido. E non perché non esista il malcontento – anzi, lo sfinimento – che Grillo denuncia. Esiste, ed è così massiccio che lo si tocca in ogni chiacchierata fra amici – i soli che ancora non se ne sono accorti appieno sembrano molti inquilini del Palazzo. Vera, la stanchezza per certa classe dirigente sempre occupata a litigare o a proteggere orti, apparentemente dimentica di quel bene comune che – teoricamente – dovrebbe guidarla. Vera, l’insofferenza di Bologna, si dice oggi negli uffici, e sui treni dei pendolari. Ma il brivido viene proprio da quel mandare al diavolo tutti, da quella voglia di smontare la politica che si organizza – nella democrazia, e finché non si trovi di meglio – nei partiti. È facile salire su un palco, e urlare: vaffa… Ma, e poi? Il giorno dopo, da cosa si ricomincia? È facile dire: questa casa ci fa schifo, e abbatterla a picconate. Ricostruirla, è il difficile. C’è una proposta di legge nel V-day, è vero. Mandare a casa i politici condannati ( ma in quale grado? e per quali reati?), mandare via tutti dopo due legislature (ma, se la politica non è improvvisazione, che senso ha eliminare chi ha esperienza? Moro, Berlinguer, quante leg islature avevano alle spalle?) Il sapore della legge di Piazza Maggiore, firmata da 300mila italiani, sa di discorsi da bar, di «piove, governo ladro», del qualunquismo incapace di tradursi in proposta positiva. Sarebbe come dire: la scuola italiana è un disastro, basta, si chiude, tutti a casa. E poi? E il mattino dopo? C’è un retrogusto di demagogia e populismo, nell’oratoria di Grillo, nel suo seguito plaudente, che potrebbe anche farsi, con la rapidità del consenso on line, marea. C’è l’orgoglio di proclamarsi “onesti” – noi, tutti onesti, i politici tutti corrotti – che riecheggia Tangentopoli, con i suoi drammi e le sue illusioni. E in quel sentirsi totalmente “a posto”, sinistra, l’ombra della tentazione del piccone. È un linguaggio semplice, lo capiscono in tutti i bar d’Italia. Ma è come lo scricchiolio del primo vacillare di una solida casa. Un rumorino: e tuttavia ti impressiona, se quella casa è il vivere civile, la democrazia con tutti i suoi peccati, che tuttavia permette però ancora a ognuno di urlare ciò che vuole, in piazza. Un piccolo tremare di mura condivise, nel liberarsi come in un conato di un peso sullo stomaco. Ma la voglia di travolgere la politica contiene la possibilità di un errore più tragico di tutte le corruzioni e inettitudini. Come un cupio dissolvi, un’ansia di disfare, certi che, eliminati i nemici, il mondo diventerà giusto. È, in nuce, il germe delle rivoluzioni. Che distruggono, e puntualmente non riescono a creare giustizia (gli “onesti”, non sono mai così perfetti). Ma, intanto, giù tutto. Che segnale, per gli svagati Palazzi. E che brivido di freddo, sotto il sole di Bologna.
Rassegna Stampa
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