C’è un popolo che chiede solidarietà
Serve un assedio mediatico alla fortezza-Myanmar
Un pugno allo stomaco, a volte, può servire. Per riaccendere l’attenzione di media, ridestare l’opinione pubblica, far riemergere dal silenzio volti, storie, un popolo.
Le foto dei monaci birmani torturati e uccisi che Asia News ha diffuso e che questo giornale ieri ha pubblicato, sono state un autentico pugno allo stomaco. Quei volti di inermi, uomini di preghiera, vittime di una brutalità così efferata da confinare con l’animalesco, hanno fatto il giro del mondo, suscitando un senso di raccapriccio e di angoscia, insieme a una buona dose di polemiche.
C’è chi sostiene che mostrare immagini così crude sia contro il buongusto. Altri dubitano che possano arrivare a scuotere la giunta militare che stringe il Paese in una morsa di ferro. Per gli uni il pugno allo stomaco sarebbe eccessivo, per gli altri inutile. Ma il direttore dell’agenzia del Pime, padre Bernardo Cervellera, ben cosciente della portata del suo gesto, lo motiva così: “Sono foto terribili. Ma ci siamo sentiti quasi costretti perché siamo amici di esuli birmani che ci chiedono di rendere noto a tutto il mondo qualè la loro situazione. Così abbiamo compiuto un gesto controcorrente rispetto alla giunta che, al contrario, non diffonde alcuna immagine e notizia su quello che è avvenuto”.
Asia News va oltre, denunciando il pericolo che i segnali distensivi diffusi dalle autorità birmane altro non siano che fumo negli occhi. “Da quando l’inviato Onu è andato in Myanmar e ha detto che la giunta è possibilista sul dialogo con Aung San Suu Kyi, la rappresentante delle opposizioni, la Birmania è scomparsa dai media” ha detto padre Cervellera al sito di Articolo 21.
Il fatto che Myanmar è lontano (culturalmente, oltre che geograficamente) e per noi – per noi italiani alle prese con i guai di casa, per noi che, con l’eccezione dei missionari, non abbiamo mai messo piede a quelle latitudini – dimenticare è fin troppo facile.
Dimenticare Myanmar? A parole nessuno lo vuole. Anche la Ue minaccia sanzioni, ma prudentemente si riserva di vedere come finirà la visita di Gambari, l’inviato dell’Onu.
Eppure, il rischio che la tragedia di quel popolo scivoli inesorabilmente dalla lista delle notizie “calde”, dalle priorità dell’agenda politiche, dall’elenco delle “cause” di moda, esiste. Eccome.
Perciò, dopo il pugno allo stomaco è l’ora delle luci accese, degli sguardi puntati. Il Myanmar ha già conosciuto l’ora dell’improvvisa notorietà. Ma, ogni volta, ha sperimentato la fugacità dell’attenzione mondiale, la volubilità dell’appoggio internazionale. È accaduto per le proteste dell’agosto 1988 contro i militari. Di lì a tre anni il mondo riscoprì quella terra (cui nel frattempo la dittatura aveva cambiato il nome originale, Birmania), quando nel 1991 il Nobel della Pace venne attribuito alla “farfalla d’acciaio” Aung San Suu Kyi. Se negli ultimi anni il Myanmar ha fatto breccia nei media è stato molto spesso perché giornali e tv hanno dato conto dell’odissea di questa donna, che ha passato anni agli arresti domiciliari senza perdere nulla del suo coraggio.
Per il resto, agli oltre cinquanta milioni di cittadini di quel Paese dalla storia convulsa, è toccata la sorte di desaparecidos.
Ebbene. Sperare in un cambiamento politico reale in Myanmar senza agire sui Paesi vicini, in primis sulla Cina, sarebbe utopistico. È stato detto e ripetuto. Ora è il momento dei fatti. Non c’è bisogno del tackle scivolato, violento; sarebbe già molto un pressing costante.
Quel che oggi serve alla causa del popolo birmano è innanzitto un assedio mediatico alla fortezza Myanmar, protetta dalla complicità dei suoi ingombranti vicini.
Rassegna Stampa
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