Angoscia e paura in un giorno atteso come festa
L’apertura delle Olimpiadi di Pechino, chiamate almeno nei simboli a unire i popoli nel segno dello sport, si è sovrapposta ai bagliori della guerra che mette di fronte Georgia e Russia. Una coincidenza ma non un caso. La cronaca degli ultimi anni, e ancor più degli ultimi mesi, è punteggiata di rivendicazioni etniche e nazionali pronte a rovesciarsi in dramma. Dall’indipendenza del Kosovo, già pagata con tante sofferenze, alla repressione in Tibet, dall’autonomismo inquinato da al-Qaeda degli uiguri alle mille faide del Caucaso, per non citare la Cecenia e i moti stroncati nel sangue nelle Repubbliche d’Asia Centrale. Una tensione politica globale che richiama altri tempi e altre Olimpiadi: il 1956 e i Giochi di Melbourne, disertati da Olanda, Spagna e Svizzera per protesta contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, e da Egitto, Iraq e Libano per l’attacco di Israele, Gran Bretagna e Francia al Canale di Suez, appena nazionalizzato da Nasser.
Dei tanti fronti aperti, ieri è esploso quello più critico. Le notizie dall’Ossezia sono per ora inquinate dalle opposte propagande. Si parla di migliaia di morti per poi ridimensionare e infine tornare su bilanci catastrofici. Di certo c’è che all’alba di ieri le truppe georgiane hanno lanciato una pesante offensiva contro gli indipendentisti osseti; questi hanno resistito e poi, con l’appoggio dei carri armati russi, hanno vigorosamente contrattaccato. Ora Mikheil Saakashvili, presidente della Georgia, chiede l’aiuto degli Usa, già presenti nel Paese con 120 consiglieri militari, mentre Putin, da Pechino, promette altri aiuti agli osseti. Le radici del conflitto sono lunghissime, affondano nella politica di russificazione del Caucaso condotta da Stalin. La stessa più tardi operata dalla Cina di Mao nel Turkestan Orientale (ribattezzato Xinjang). Ossezia del Sud e Abkhazia (l’altra regione secessionista della Georgia) non sono che enclave russofone entro confini altrui. Ma stiamo alla storia recente e a chi specula sulle vecchie divisioni. L’Ossezia del Sud decide di troncare con Tbilisi e riagganciarsi a Mosca già nel 1990, proprio mentre la Georgia lotta per staccarsi dall’Urss. Ed è Gorbaciov a mandare le prime truppe (gennaio 1991) in aiuto agli osseti. Ne segue una guerra sanguinosa che dura due anni e si chiude con una pace mai davvero rispettata. Putin ha ereditato il problema ma l’ha poi tenuto da parte per sfruttarlo a tempo debito. L’occasione è arrivata con l’indipendenza del Kosovo, a Mosca assai indigesta. Messo di fronte al fatto compiuto, Putin disse: «Questo sarà un precedente ». Da allora le frizioni tra Georgia da un lato, Abkhazia, Ossezia del Sud e Russia dall’altro non si sono più contate.
Il presidente georgiano ha offerto agli osseti autonomia all’interno della Georgia, sapendo che avrebbero rifiutato. Ad aggravare la questione ha pensato l’imperizia della politica estera americana. Saakashvili si è schierato con gli Usa e Tbilisi è diventata un pilastro del Btc, l’oleodotto che corre dall’Azerbaigian alla Turchia, via appunto Georgia, inaugurato nel 2006 da Condoleezza Rice. In questo modo, però, gli Usa si sono legati a Saakashvili, personaggio quanto mai discutibile che ora non possono abbandonare. Il Cremlino, peraltro, non è disposto a cedere il controllo del Caucaso e delle rotte petrolifere, come la Cecenia insegna, e in proposito può sfruttare l’entusiasmo nazionalistico dei russi.
Alla fin fine è l’ennesima guerra combattuta dai piccoli per conto dei grandi. Proprio per questo più penosa, inquietante e odiosa.
Rassegna Stampa
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