«Ascolta, bimba mia, ascoltami bene…»
Una fucina di cercatori di Dio, di coscienze inquiete e di penne devote. Questa è stata la Francia tra la fine dell’800 e la prima metà del ’900. Pochi Paesi hanno prodotto una tale messe di scrittori che si sono incontrati e scontrati col Vangelo come la terra che pure fu la patria dei Lumi. Tra di essi merita di essere ricordato quello che si può considerare a buon diritto il grande cantore di Maria: il poeta Charles Péguy.
Nella sua breve ma feconda avventura esistenziale Péguy ha attraversato la letteratura europea del Novecento come una meteora, ma questa meteora, lungi dall’esaurirsi, brilla ancora. E ci consegna un’eredità di fede davvero straordinaria, capace di toccare le corde più profonde del nostro spirito.
«Ascolta, bimba mia, ora ti spiegherò, ascoltami bene, / ora ti spiegherò perché, / come, in che / la Santa Vergine è una creatura unica, rara. / Di una rarità infinita, fra tutte precellente, / unica fra tutte le creature. / Seguimi bene…».
Lo scrive all’inizio di quell’opera che è un autentico inno a Maria, Il portico del mistero della seconda virtù. Un canto che comincia quasi in sordina per poi avvitarsi, con accenti sempre più appassionati, in uno splendido canto d’amore alla Vergine.
«A colei che è infinitamente grande / perché è anche infinitamente piccola… / A colei che è infinitamente ricca / perché è anche infinitamente povera… / A colei che è infinitamente alta / perché è anche infinitamente discendente… / A colei che è infinitamente salva / perché a sua volta salva infinitamente… / A colei che è tutta Grandezza e tutta Fede / perché è anche tutta Carità… / A colei che è la più imponente / perché è anche la più materna… / A colei che è infinitamente celeste / perché è anche infinitamente terrestre… / A colei che è infinitamente gioiosa / perché è anche infinitamente dolorosa… / A colei che è con noi / perché il Signore è con lei… / Colei che è infinitamente regina / perché è la più umile delle creature…».
Un canto affascinante, il suo, che parla della grandezza e del mistero di Maria e che ha l’andamento e il sapore di certe antiche litanie. Ma, c’è da chiedersi, da dove nasceva questo elogio appassionato della Santa Vergine?
Per comprenderlo, dobbiamo gettare uno sguardo sulla vita – in verità assai breve, appena quarantuno anni, ma altrettanto tumultuosa – di questo grande poeta francese. Charles Péguy fu un convertito, e del convertito la sua dimensione di scrittore avrà sempre l’impronta, negli aspetti di assoluto rigore come nelle fulminanti accensioni liriche.
Una voce poetica “esplosiva”
Nato a Orléans il 7 gennaio 1873, ancora in fasce perse il padre, sicché sua madre per sopravvivere dovette imparare il mestiere di impagliatrice di sedie. Charles potrà studiare grazie alle borse di studio.
A vent’anni si trasferisce a Parigi, a quel tempo ha già abbandonato ogni pratica religiosa. È un giovane colto, intelligente, che diventerà discepolo di Bergson. Sensibile alle questioni sociali, è acceso da un ideale che nell’ultimo scorcio dell’Ottocento ha i contorni rivoluzionari del socialismo.
Péguy aderisce al credo socialista con tutto l’ardore della gioventù, ma ne resterà presto deluso. Da tale disillusione prenderà corpo la crisi, salutare e risolutiva.
È l’irruzione nella sua vita della Grazia. Evento misterioso, come ogni conversione, ma indubbiamente segnato da Maria. La storia di tanti convertiti sta a dimostrarlo: dietro ogni “caduta da cavallo”, dietro ogni ritorno alla fede, c’è sempre lo zampino di lei, della Madonna.
È Maria che riconduce a Dio, per sentieri segreti e imprevedibili che solo lei conosce. Persino il peccatore più incallito e con un piede già nell’abisso, come rammenta il Montfort, si converte ed è salvo per intercessione della Vergine, che sa come sciogliere i cuori più induriti.
Come accade appunto al colto e indifferente scrittore di Orléans. A un certo punto, infatti, Péguy scrive all’amico Joseph Lotte, della sua cerchia parigina di intellettuali socialisti, e gli confessa: «Ho ritrovato la fede. Sono cattolico».
È il 1908. Ha 35 anni. Da questo momento fino al giorno della sua morte – che avverrà nell’estate del 1914, in guerra, durante la battaglia della Marna – Péguy si dedicherà a diffondere la fede ritrovata in scritti di forte ispirazione religiosa. Solo due anni dopo la sua morte, nel 1916, l’editore parigino Gallimard iniziò a pubblicare tutte le sue opere.
È un cattolicesimo, quello di Péguy, vissuto in forma mistica e rivoluzionaria, che ha il suo centro di luce in Maria, icona della speranza. I suoi versi, spesso ieratici, a volte ridondanti, conservano tracce di echi biblici molto forti, tra l’epico e il profetico.
È uno stile personalissimo, il suo, e perciò impossibile da imitare. Difatti egli è rimasto una voce pressoché unica nel panorama della letteratura europea del Novecento. Come ha efficacemente scritto Carlo Bo, la voce di Péguy «possiede l’esplosivo sufficiente a mandare per aria tutti gli edifici costruiti dalla tranquillità».
Il mistero della seconda virtù
«Quando avremo recitato la nostra ultima parte, / quando avremo deposto cappa e mantello, / quando avremo gettato maschera e coltello, / ricorda il nostro lungo peregrinare. / Quando ci caleranno nella fossa / e ci avranno offerto assoluzione e messa, / ricorda, o Regina di ogni promessa, / il nostro lungo cammino, il nostro peregrinare…».
Il portico del mistero della seconda virtù rappresenta la seconda parte di un trittico in versi che il poeta volle dedicare alle virtù teologali: fede, speranza e carità, comprendente Il mistero della carità di Giovanna d’Arco e Il mistero dei Santi Innocenti.
Delle virtù teologali, secondo il poeta, è la speranza la più gradita a Dio, forse perché è anche la più difficile: «La Fede è una sposa fedele. / La Carità è una Madre / la Speranza è una bambina da nulla», dice lui, «eppure è questa bambina che traverserà i mondi».
La speranza, quindi, precede la fede e la carità, e corrisponde alla “infanzia del cuore”. È qualcosa di «più dolce del sottile germoglio d’aprile», dice il poeta; essa «vede quello che non è ancora e che sarà, / ama quello che non è ancora e che sarà», ed è per l’appunto la “seconda virtù” a cui si fa cenno nel titolo. Una virtù che discende da Maria, la quale «ha preso a carico e in tutela / e in commenda per l’eternità / la giovane virtù Speranza».
Che cosa vuol dire? Vuol dire che la Madre di Dio un giorno è diventata anche madre nostra e, tra le sue braccia accoglienti, ci riceve e ci guida al porto sicuro della volontà di Dio, se appena abbiamo l’ardire – «l’audacia» scrive lui – di affidarle le nostre vite.
«E lei, che li aveva presi – continua – aveva / tanti figli sulle braccia. / Tutti i figli degli uomini. / Da quel primo piccino che aveva portato in braccio / Quel piccolo uomo che rideva come un tesoro / e che dopo le aveva causato tanto tormento /perché era morto per la salvezza del mondo…».
Maria è l’immagine della tenerezza di Dio verso tutti noi, suoi figli, «noi che non siamo nulla, noi che entriamo nella vita e subito ne usciamo, / come dei girovaghi entrano in una fattoria per un pasto soltanto, / per una pagnotta e per un bicchiere di vino». Creature effimere che durano un giorno, infelici, a contatto col dolore e la morte, anelanti a una difficile se non impossibile innocenza del cuore.
Eppure, dice Péguy, proprio all’uomo, a questo «pozzo d’inquietudine», Dio ha fatto dono di sé, «spaventoso amore, spaventosa carità». È questo il suo mistero, il mistero della seconda virtù: che «il Creatore ha bisogno della sua creatura… / Colui che è tutto ha bisogno di ciò che non è nulla…».
A pensarci bene, è il mistero di Dio, l’essenza per noi assolutamente inspiegabile della sua gratuità, che poi fa tutt’uno col mistero di Maria, il suo essere compresenza e armonia degli opposti: purezza e al tempo stesso coscienza della miseria umana, senso di finitudine e salvezza donata a piene mani.
«A tutte le creature – scrive il poeta – manca qualche cosa, e non soltanto di non essere Creatore. / A quelle che sono carnali, lo sappiamo, manca di essere pure. / Ma a quelle che sono pure, bisogna saperlo, manca di essere carnali. / Una sola è pura essendo carnale. / Una sola è carnale essendo pura. / È per questo che la Santa Vergine non è solo la più grande benedizione che sia caduta sulla terra. / Ma la più grande benedizione discesa in tutta la creazione…».
Anche gli angeli sono puri, dice Péguy, però non conoscono la materia, non hanno corpo, questo nostro corpo impastato di fango e di cenere che sempre ci inchioda alla terra. Maria, al contrario, pur essendo immacolata, «pura come Eva prima del primo peccato», ha sperimentato la realtà della carne, ed è in grado di capire quella pesantezza tutta umana del vivere.
«Quando avremo lasciato sacco e corda, / quando avremo tremato gli ultimi tremiti, / quando avremo rantolato gli ultimi dolori, / ricorda la tua misericordia. / Nulla ti chiediamo, o Rifugio dei peccatori, / solo l’ultimo posto nel tuo purgatorio, / per piangere a lungo la nostra tragica storia, / e contemplare da lontano il tuo splendore…».
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