Un piccolo bambino lasciato morire da solo!
Sabato 24 aprile è accaduto un fatto drammatico che non possiamo tacere per verità!
Una donna incinta alla ventiduesima settimana si è recata all’ospedale “Nicola Giannattasio” di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza per interrompere la sua prima gravidanza: l’ultima ecografia ha evidenziato alcune malformazioni al figlio che porta in grembo. Viene praticato l’aborto cosiddetto terapeutico e il bambino “abortito” di soli 300 grammi viene avvolto e lasciato in un angolo della sala operatoria.
La mattina successiva sembra sia stato il cappellano dell’ospedale don Antonio Martello, recatosi in quel luogo proprio a pregare per quanto accaduto, ad accorgersi di persona che quel corpicino avvolto in delle garze era ancora vivo. Il piccolo bambino viene allora infilato in un’incubatrice di Neonatologia nell’ospedale civile dell’Annunziata di Cosenza dove ha smesso di respirare ben due giorni dopo, lunedì mattina.
“Il ministero della Salute invierà i suoi ispettori all’ospedale di Rossano Calabro per accertare che cosa sia effettivamente accaduto, e verificare se sia stata rispettata la legge 194, che vieta l’aborto quando ci sia possibilità di vita autonoma del feto e lo consente solo se la prosecuzione della gravidanza comporti un pericolo di vita per la donna”. È stato questo il commento immediato del sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella.
Come mai nessun telegiornale e pochissimi quotidiani hanno riferito questa notizia realmente agghiacciante? Forse perché veramente molto scomoda e soprattutto stonata con l’idea di libertà e autonomia che viene spesso sbandierata a garanzia della tutela dei diritti in questo caso della donna?
Il sottosegretario Roccella ha colto immediatamente nel suo comunicato il cuore della questione: prima ancora di addentrarci sul problema dell’eventuale e tragico abbandono terapeutico e sulla necessità di rianimazione dei feti abortiti e nati vivi occorre fare chiarezza sull’applicazione della legge 194.
Infatti l’art. 6 della legge 194 dice testualmente: “L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. È evidente che perché possa essere praticato un aborto a 22 settimane secondo la legge debbano esserci le condizioni tali per cui la salute fisica o psichica della donna sia gravemente in pericolo. Sappiamo bene che il pericolo della salute fisica è facilmente riscontrabile, mentre il riferimento alla salute psichica lascia purtroppo la possibilità di aggirare la legge. Come si fa a stabilire se effettivamente ci sia un reale pericolo alla salute psichica della donna? E se realmente ci fosse perché comunque non proporre la possibilità di portare avanti la gravidanza e affidare il bambino poi in adozione? Tanto più perché come affermato dal prof .Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli di Roma in un’intervista su Avvenire: “La Società italiana di ginecologia e ostetricia raccomanda di effettuare l’ecografia morfologica a 19-21 settimane anziché a 20-22, anticipando l’eventuale diagnosi di malformazioni fetale, non considerando che la diagnosi tanto più è esatta quanto più si lascia passare il tempo. Queste linee guida nascono dal tentativo di andare incontro alle donne e causare, in caso si decida di interrompere la gravidanza, il minor disagio psicologico possibile. In realtà è una dinamica fortemente contraddittoria perché non è convalidata dai dati offerti dalla letteratura scientifica: sono proprio le donne che decidono di abortire i soggetti che nel tempo sviluppano tre volte di più sindromi depressive o disordini psichici. La scienza ostetrica non deve essere subordinata quindi a politiche sanitarie che non risolvono realmente i problemi”.
Dunque quanto è accaduto rinfaccia al mondo intero la piaga dell’aborto. E rinfaccia al mondo intero il rischio, che è sempre più una realtà, di poter “aggirare” quella che è una legge originalmente codificata per il riconoscimento del valore sociale della maternità e a “tutela la vita umana dal suo inizio”. Ma non basta: questa drammatica circostanza rinfaccia al mondo intero quanto sia offuscato l’uomo sull’evidenza e il valore della vita umana. Un piccolo bambino lasciato morire da solo! È impossibile che nessuno se ne sia accorto prima del cappellano. E allora in nome di che cosa si può lasciare così abbandonato, senza soccorso, cura e affetto, quello che non è più un feto ma un bambino prematuro?
Riflettendo sui limiti della legge che assicura l’intubazione e la ventilazione solo a feti vitali di 23 e 24 settimane, mons. Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, ha dichiarato a Radio Vaticana: “Il medico non deve guardare la data deve guardare il fatto. Quindi, se un feto viene abortito, volontariamente o accidentalmente, e lo si trova vivo anche se ai limiti della sopravvivenza, ai limiti cronologici, e però si è di fronte a un feto che, o perché vigoroso o perché non calcolate bene le date, di fatto viene fuori vivo, si è obbligati a farlo vivere. Questo venga chiarito per legge, o addirittura venga anticipata la data della vitalità. Quindi, ha fatto bene il vescovo a richiamare la massima attenzione e vigilanza, perché quello che vale di fronte alla vita umana – di fronte alla coscienza, di fronte a Dio – è uno che nasce e addirittura è già fuori dell’utero materno e si dimostra di essere vitale, deve avere tutto il soccorso per essere accompagnato”.
Sulla vicenda, infatti, è intervenuto con frasi molte severe anche l’arcivescovo di Rossano: “C’è questa perdita di valore della vita. Mi chiedo come sia considerato un bambino di circa 3 etti, formato e vitale, se qualcuno ad un certo punto può decidere di non curarlo! E’ un problema alla fine – credo – di valori. Mi consenta di dire che, forse, è nascosta anche una mentalità eutanasica, nel senso che si considera alla fine inutile rianimare un essere umano che abbia aspettative di vita scarse o peggio ancora che potrebbe riportare danni, che con qualche probabilità aumentino la gravità delle sue eventuali malformazioni. Mi rendo conto come sia necessario ripartire dalla vita, ma bisogna anzitutto chiedersi che cosa s’intenda per vita: se i medici arrivano a dire oggi – e su questo mi pare ci sia concordia – che l’embrione è vita, dobbiamo allora chiederci che vita è? E’ vita umana? Allora, se è vita umana, perché non definirla persona umana? E se è persona umana, perché non riconoscere a questa persona umana i diritti che sono propri di ogni persona umana? Noi, come Chiesa, non possiamo tacere!”
Come si fa a tacere un dramma del genere, a non cogliere l’evidenza della vita, andando oltre ogni “più alta” ideologia?
La solitudine, la paura, lo sconforto in questi momenti possono portare a scelte apparentemente più semplici e risolutive. Però è necessario dare un giudizio, perché di fronte a quel bimbo abortito che si muove la ragione non può negargli di essere vita e quindi di essere una persona umana, un bambino… con tutti i diritti che la legge riconosce ad ogni uomo al momento della nascita.
E ciò che ancor di più sconvolge è che non stiamo parlando di casi rari: se una gravidanza regolare dura quaranta settimane, un feto, che viene abortito oltre la metà delle settimane di gestazione, può effettivamente nascere vivo.
Di certo nessuno dell’equipe medica e infermieristica operativa ha l’autorizzazione, il compito, e la facoltà di sopprimere il feto nato vivo, né di accelerare la sua “fine”, ma di fatto si attende, lasciandolo senza assistenza medica né assistenza terapeutica, che la vita, o la morte, faccia il suo decorso.
Questa cosa è evidentemente obbrobriosa. La stessa legge 194 prevede l’assistenza e l’intervento dei sanitari nel caso in cui, a seguito d’un aborto, il feto presenti attività vitali, così come indicato nell’art. 7: “Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
Inoltre nel 2006, i neonatologi e il Centro di bioetica dell’Università Cattolica di Roma hanno messo a punto delle “Linee guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica”: in caso di età gestazionale incerta, l’indicazione è di rianimare il feto vitale “fatta salva la possibilità di rinunciare agli interventi successivi se c’è una situazione di incompatibilità con la vita”. Sotto le 22 settimane, le linee guida prevedono l’astensione da intubazione e ventilazione e il trattamento con sole cure palliative e analgesici; per feti vitali a 23 e 24 settimane si prevedono intubazione, ventilazione e rianimazione cardiocircolatoria. Certo, quanto al trattamento medico e alla rianimazione, nel testo si legge che “non può essere confinato in rigidi schematismi, ma esige una valutazione accurata ed individualizzata delle condizioni cliniche alla nascita“.
Del resto non possiamo dimenticare che ogni medico nel giuramento di Ippocrate che professa ad inizio della sua professione giura anche “di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’ uomo e il sollievo della sofferenza” Nessuna legge dunque può impedire od obbligare un medico a prestare soccorso alla vita umana sofferente, perché fa già parte della sua missione, del suo essere a servizio della debolezza e del dolore. Questo non toglie che necessiti una disposizione normativa in tal senso, che vada a salvaguardare la vita in quanto tale…
Quella vita che prorompe sempre, senza fermarsi a ciò che stabilisce la legge o la scienza medica! In quella piccola e inconsistente e dimenticata carne di bambino di soli 3 etti una vita, che proviene direttamente da Dio creatore. A Lui e alla sua infinita Misericordia affidiamo tutta questa tremenda vicenda.