Sequestri di persona e speranza di redenzione
Sequestri di stato, ossia sequestri di persona
Il giorno di Pasqua è stato decapitato nei pressi di Kandahar Adjmal Naqshbandi, giornalista afghano di 23 anni, meglio conosciuto come l’interprete di Daniele Mastrogiacomo, il giornalista di Repubblica sequestrato da un gruppo di terroristi talebani e rilasciato qualche giorno prima del tragico evento; i suoi funerali sono stati celebrati l’11 aprile a Kabul dopo una cerimonia funebre alla quale hanno partecipato centinaia di persone, evidentemente commosse dalla storia di quest’uomo.
A tutt’oggi è guerra aperta tra il governo di Kabul ed Emergency, che in seguito alla accuse mossegli di organizzazione fiancheggiatrice dei terroristi e di Al Qaida, ha ritirato il personale italiano e internazionale dall’Afghanistan.
Questo “affare di Stato” suscita in ciascuno mille domande, come per esempio “perché coinvolgere un’organizzazione umanitaria quale Emergency nelle trattative con i terroristi di rilascio di ostaggi, perché scendere a compromessi con degli assassini, perché scambiare la vita di un uomo con un altro uomo, ecc.”, alle quali non è possibile dare risposte complete, tanto meno in questo contesto complesso.
Su alcune questioni, comunque, ci interessa porre l’attenzione: ogni volta che avviene una sequestro internazionale, in cui è coinvolto un cittadino italiano, il nostro Stato sborsa ingenti riscatti, di solito in dollari (certo è un segreto di Stato ma non mancano mai le solite indiscrezioni); una simile soluzione però è esclusa dall’ordinamento interno italiano, che prescrive il blocco dei beni dei parenti delle vittime, per evitare appunto la corresponsione ai rapinatori di denaro liquido.
Diciamo che per i sequestri internazionali esiste “una prassi più flessibile”, di certo non inedita in quanto viene seguita sia nei conflitti tra Stati sia nei conflitti interni.
Esiste addirittura una tipologia delle contropartite per il rilascio degli ostaggi: il modello più ricorrente è lo scambio di prigionieri, poi si può avere una contropartita in materiale di soccorso, medicinali e apparecchiature mediche (ma è un modello che non piace molto), ed infine il pagamento in contanti, che è il più gradito ai rapitori, ma anche il più discusso e controproducente per lo Stato a cui appartengono le vittime e per i suoi alleati. Nel caso della giornalista Giuliana Sgrena, per esempio, è stata diffusa una lista delle armi che i sequestratori avrebbero potuto acquistare con le disponibilità monetarie così ottenute; e comunque questo denaro, oltre a rimpinguare l’arsenale del terrore, va a finire nei paradisi bancari internazionali, per scopi non ancora del tutto comprensibili!
Allora è lecito domandarsi: “Perché tanto rigore nei confronti delle famiglie italiane, alle quali viene congelato ogni bene per evitare loschi scambi di denaro con coloro che tengono appeso per un filo la vita di loro cari? Perché, invece, questa flessibilità nei confronti dei sequestratori terroristi, a cui basta decidere ed ottenere ciò che vogliono, giocando con la vita delle persone e le ragioni di Stato?”.
Vanno combattute con la stessa forza e la stessa ragione sia la delinquenza nazionale che il terrorismo internazionale, senza addurre fantomatiche questioni di Stato, per nulla chiare persino ai nostri governanti.
Per non dimenticare poi quanti missionari italiani nel mondo vengono sequestrati e barbaramente uccisi, di cui lo Stato e i massmedia non si interessano affatto, per cui non spendono parole, né tanto meno soldi, forse perché tanto il loro compito è dare comunque la vita per la causa del Vangelo; ricordiamoci però che questo non può costituire un alibi per la nostra società che finisce spesso con il relegare in una zona d’ombra queste sentinelle di Dio, forse scomode proprio per la loro testimonianza (Avvenire 13 aprile 2007).
Non c’è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande!!!
Anche da una condanna per omicidio c’è la speranza di redenzione.
Questa è la storia di Pietro Maso, che all’età di diciannove anni, nel 1991, uccise barbaramente padre e madre nella loro casa in provincia di Verona, e per cui fu condannato a trent’anni di reclusione, scampando l’ergastolo grazie ad una riconosciuta infermità di mente.
Già da sedici anni sta scontando la sua pena nel carcere di Opera, e solo in questi giorni gli è stata accolta una richiesta di permesso premio di tre giorni per andare a far visita alle sorelle (Il Giornale del 15 aprile 2007)
Coloro che lo hanno visto crescere in questi anni non possono negare la sua “redenzione”, evidente nel suo sguardo, nei suoi gesti, nelle sue parole e nel suo rapportarsi con gli altri.
Pietro si è avvicinato a Cristo e alla Sua Chiesa, e presa coscienza dei suoi limiti e dei suoi errori, ha fatto però esperienza del Perdono e della Misericordia, dono immenso del Padre Creatore a chi si rivolge a Lui con animo umile e sincero. Parole di perdono vengono anche dai suoi familiari, che lo hanno accolto a braccia aperte.
Un grande segno di questa Misericordia incontrata è stata la concessione del suddetto permesso proprio alla vigilia di Pasqua, in cui il mondo cattolico ricorda Dio fatto uomo e morto in croce per salvare ogni uomo; di certo Pietro è stato invaso da un Amore più grande, che gli sta permettendo di giungere, pur passando attraverso l’esperienza della croce, a riscoprire il vero desiderio di felicità del suo cuore.