“Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme”
Mentre in questi giorni milioni di persone sono più o meno impegnate nel cercare di festeggiare il meglio possibile il Natale, festa in molti Paesi e molti cuori dimenticata nel suo Vero Significato, tanti fatti si sono verificati e stanno accadendo che fanno pensare… ma cosa c’è veramente da festeggiare?!
Tra tutti quello che sta succedendo ad Eluana Englaro, trentottenne viva anche se costretta per un grave incidente su di un lettino di ospedale… In stato vegetativo ma viva, solo bisognosa di essere aiutata a mangiare e bere. Ebbene, tra pochi giorni le verrà sospesa l’alimentazione perché una sentenza, “In nome del popolo italiano”, ha considerato il suo stato simile alla morte, non più vivente…
Proprio la notte di Natale un’altra tragedia: la strage familiare che ha colpito un sobborgo di Los Angeles in California. Bruce Jeffrey Pardo, quarantacinquenne separato da poco tempo, stava vivendo la S. Messa nella Parrocchia del Santo Redentore a Montrose quando improvvisamente se ne è andato e, vestito da Babbo Natale si è recato nella casa dei suoceri della sua ex moglie, apparentemente per fare gli auguri. In pochi minuti si è verificata una delle più grandi tragedie: il Sig. Pardo, all’apertura della porta d’ingresso, ha iniziato a sparare all’impazzata uccidendo la propria ex moglie insieme ad altre sette persone, ferendone altre diciassette, dando fuoco alla villetta ed infine, uccidendosi con un colpo alla testa (Follia. Si veste da babbo natale…). Apparentemente un uomo tranquillo, sereno e per di più generoso. Come è potuto accadere un simile orrore?
Un altro fatto tragico si è verificato la mattina di Natale, in Italia, a Castelfusano, alle porte di Roma. Dorina, 32 anni, rom, per cercare di scaldare l’alloggio di fortuna fatto di legno e cartoni e per scaldare il figlio Kristinel, di tre anni, ha rintuzzato il fuoco della stufa con dell’alcool ed immediatamente il fuoco è divampato in tutto l’alloggio bruciando lei ed il figlioletto… E pensare che era venuta in Italia da pochi giorni proprio per trascorrere le feste di Natale col marito, in Italia da diverso tempo. L’uomo non si trovava nella baracca al momento dell’incendio ma era uscito all’alba per andare a lavorare.
E poi chissà quanti fatti di dolore e di sofferenza privata hanno accompagnato questi giorni di Natale… ma allora cosa c’è da festeggiare? Come si può festeggiare? Di fronte a tutto questo come si fa a non disperare, a non rinunciare, come si fa a credere alla possibilità di gioire veramente e pienamente?
Così il Santo Padre Benedetto XVI ha affermato in un tratto dell’Omelia della Veglia di Natale:
“Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell’alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?” Così canta Israele in uno dei suoi Salmi (113 [112], 5s), in cui esalta insieme la grandezza di Dio e la sua benevola vicinanza agli uomini. Dio dimora nell’alto, ma si china verso il basso… Dio è immensamente grande e di gran lunga al di sopra di noi. È questa la prima esperienza dell’uomo. La distanza sembra infinita. Il Creatore dell’universo, Colui che guida il tutto, è molto lontano da noi: così sembra inizialmente. Ma poi viene l’esperienza sorprendente: Colui al quale nessuno è pari, che “siede nell’alto”, Questi guarda verso il basso. Si china in giù. Egli vede noi e vede me. Questo guardare in giù di Dio è più di uno sguardo dall’alto. Il guardare di Dio è un agire. Il fatto che Egli mi vede, mi guarda, trasforma me e il mondo intorno a me. Così il Salmo continua immediatamente: “Solleva l’indigente dalla polvere…” Con il suo guardare in giù Egli mi solleva, benevolmente mi prende per mano e mi aiuta a salire, proprio io, dal basso verso l’alto. “Dio si china”. Questa parola è una parola profetica. Nella notte di Betlemme, essa ha acquistato un significato completamente nuovo. Il chinarsi di Dio ha assunto un realismo inaudito e prima inimmaginabile. Egli si china – viene, proprio Lui, come bimbo giù fin nella miseria della stalla, simbolo di ogni necessità e stato di abbandono degli uomini. Dio scende realmente. Diventa un bambino e si mette nella condizione di dipendenza totale che è propria di un essere umano appena nato. Il Creatore che tutto tiene nelle sue mani, dal quale noi tutti dipendiamo, si fa piccolo e bisognoso dell’amore umano. Dio è nella stalla. Nell’Antico Testamento il tempio era considerato quasi come lo sgabello dei piedi di Dio; l’arca sacra come il luogo in cui Egli, in modo misterioso, era presente in mezzo agli uomini. Così si sapeva che sopra il tempio, nascostamente, stava la nube della gloria di Dio. Ora essa sta sopra la stalla. Dio è nella nube della miseria di un bimbo senza albergo: che nube impenetrabile e tuttavia – nube della gloria! In che modo, infatti, la sua predilezione per l’uomo, la sua preoccupazione per lui potrebbe apparire più grande e più pura? La nube del nascondimento, della povertà del bambino totalmente bisognoso dell’amore, è allo stesso tempo la nube della gloria. Perché niente può essere più sublime, più grande dell’amore che in questa maniera si china, discende, si rende dipendente. La gloria del vero Dio diventa visibile quando ci si aprono gli occhi del cuore davanti alla stalla di Betlemme”.
È questa la certezza. Solo così è possibile aderire di cuore e partecipare interamente all’invito del profeta Isaia (Is 52,7-10) che nella S.Messa del giorno di Natale ci ha esortato in questo modo: “Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme”.
Solo nella certezza che “viene, proprio Lui, come bimbo giù fin nella miseria della stalla”, della nostra stalla, della nostra debole e fragile paglia, nel freddo glaciale di episodi tragici e apparentemente disperanti con cui abbiamo a che fare, più o meno direttamente, nella nostra impotenza di fronte a tanto male più o meno procurato, possiamo prorompere ora in canti di gioia, noi rovine di Gerusalemme. E non rimandare per sempre l’esperienza della gioia ad un futuro più o meno vicino, più o meno raggiungibile, più o meno desiderato.