L’identità di un feto
Sabato 02 febbraio è stato diffuso un documento approvato dai direttori delle cliniche di ostetricia e ginecologia delle facoltà di Medicina delle università romane Tor Vergata, La Sapienza, Cattolica e Campus Biomedico dal titolo “Un neonato vitale, in estrema prematurità, va assistito anche se la madre è contraria”, favorevoli a tentare di tenere in vita il feto, dopo un’interruzione di gravidanza, anche contro la volontà della mamma.
Il documento è stato discusso nel corso di un convegno tenutosi al Fatebenefratelli dedicato alla Giornata della Vita in relazione alla prematurità estrema, i margini di gestione ostetrica e i risvolti neonatologici.
Il documento non indica termini temporali, come accade invece in questo ultimo periodo nella comunità medica in cui si discute del limite delle 22 settimane di gestazione, ma punta sulla vitalità del neonato. Difatti nel testo si ribadisce il dovere del medico di rianimare sempre qualsiasi prematuro che mostri segni di vitalità, in quanto “un neonato vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente” e perché “l’attività rianimatoria esercitata alla nascita dà il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell’Unità ed i genitori” (da La Stampa del 03 febbraio).
In particolare il prof. Domenico Arduini, direttore della clinica di ostetricia e ginecologia dell’università di Tor Vergata, uno dei firmatari del suddetto documento, sostiene che nel caso in cui un feto nasca vivo dopo un’interruzione di gravidanza, la rianimazione da parte del medico neonatologo debba essere eseguita anche senza il consenso della madre poiché deve prevalere l’interesse del neonato. “Il documento che abbiamo firmato – ha spiegato Arduini – va oltre la carta di Firenze e il testo redatto dalla commissione del ministero della Salute. Abbiamo infatti voluto cancellare il numero delle settimane di gravidanza, e porre al centro il problema della vitalità del neonato, in qualità sia di ente giuridico che di paziente”. In questo modo il neonatologo, decidendo di intervenire subito “guadagna minuti preziosissimi perché non ha più il dovere di discutere con i genitori prima di decidere, come accadeva prima” (da il Messaggero del 03 febbraio).
D’accordo anche Cinzia Caporale, del Comitato nazionale di bioetica. “Il medico deve agire in scienza e coscienza sulla opzione di rianimare, indipendentemente dai genitori, a meno che non si palesi un caso di accanimento terapeutico”. Nell’ipotesi in cui il feto sopravviva all’aborto “non ritengo necessario chiedere il consenso della madre. In questo caso infatti si esercita un’opzione di garanzia con cui si tutela un individuo fragile e vulnerabile, qual è il neonato, in un fase in cui non si hanno certezze cliniche. Secondo me si può presumere lo stato di abbandono giuridico del neonato da parte della madre, che ovviamente può tornare indietro sulla sua decisione”(da La Stampa del 03 febbraio).
Al di là di tutte le polemiche che tale documento ha provocato, ribadito il dissenso più totale all’interruzione di gravidanza, non possiamo non domandarci: ma se quel feto che al momento della nascita, anche estremamente prematura, diventa per la legge un soggetto titolare di diritti e doveri, chi era un momento prima? Perché non ha diritto alla vita prima del taglio del cordone ombelicale? Dunque l’essere pienamente una persona e quindi l’assunzione di diritti e doveri è conseguenza dell’espulsione dal ventre della mamma e del gesto del taglio del cordone ombelicale? All’ interruzione di quella meravigliosa e miracolosa simbiosi e convivenza tra madre e figlio?
È una contraddizione assurda. Poter abortire un bambino che nel momento in cui è abortito ma rimane “vivo” deve essere salvato. Poter decidere di togliergli la vita ma, se non ci si riesce, fare di tutto per ridargliela! Un orrore!
Certamente questo documento delle università romane va a sancire un’evidenza: l’identità di un feto, il suo essere bambino.
E lo fa fino al punto di chiedere di salvare anche quel debole respiro di vita di un neonato prematuro, di fronte al quale alcuni invece vorrebbero continuare a girare la faccia.
“Così come appare è un messaggio che ci fa piacere”, ha affermato monsignor Elio Sgreccia, presidente del Pontificio Consiglio per la Vita, il quale però, prudentemente, ha rimandato qualsiasi commento ufficiale ad una lettura più analitica del testo.
Che per il momento non è stato pubblicato nella sua interezza.
Domenica 3 febbraio, il giorno dopo la diffusione di tale documento la Chiesa Cattolica ha celebrato appunto la trentesima Giornata per la Vita, dal titolo “Servire la vita”, promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana. Nello stesso giorno il Santo Padre ricordando il messaggio dei vescovi per la Giornata per la Vita, con mitezza e forza, con umiltà e certezza, così come lui è, ha proprio affermato: “La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita. Ognuno, secondo le proprie possibilità, professionalità e competenze si senta sempre spinto ad amare e servire la vita, dal suo inizio al suo naturale tramonto. È infatti impegno di tutti accogliere la vita umana come dono da rispettare, tutelare e promuovere, ancor più quando essa è fragile e bisognosa di attenzioni e di cure, sia prima della nascita che nella sua fase terminale”.