La Svezia è a favore o contro la famiglia?
Una multa di 6.600 corone, pari a circa 700 euro, e tre giorni di carcere: tanto in Svezia “vale” uno schiaffo dato in strada ad un figlio.
Questo è il dato che emerge dalla vicenda di Nicola Colasante, 46 anni, consigliere comunale a Canosa di Puglia, nel barese, in vacanza a Stoccolma con famiglia e amici. Martedì 23 agosto la comitiva si apprestava a cenare in un ristorante della capitale quando il figlio dodicenne dei Colasante ha iniziato a fare capricci perché non voleva entrare, preferendo andare in pizzeria, e si è messo a correre alla ricerca di un locale.
A quel punto il padre, come riferisce l’avv. Patruno, legale di famiglia, preoccupato che il figlio si potesse perdere in una città sconosciuta, ha iniziato a inseguirlo; il ragazzo è caduto per terra ed il padre lo ha sollevato per il bavero della giacca, sgridandolo ad alta voce e gesticolando per convincerlo ad entrare.
Questo comportamento è stato interpretato come “percosse” da alcuni testimoni, presumibilmente di nazionalità libica, che assistendo alla scena hanno chiamato la polizia locale, che è intervenuta tempestivamente. Sotto gli occhi increduli e sbigottiti dei presenti, figlio compreso, al termine di una discussione complicatissima e infruttuosa, l’italiano è stato ammanettato in strada e portato in commissariato.
Lì gli agenti, senza l’ausilio di un interprete, hanno ascoltato prima il ragazzino, ma non hanno creduto alle sue dichiarazioni circa il fatto che il padre lo avesse solo sgridato e che non c’erano state percosse.
In un’altra stanza hanno interrogato il padre, che è stato informato di essere accusato di maltrattamenti al minore e quindi arrestato. È rimasto tre giorni in galera e, poi, grazie all’intervento dell’ambasciata italiana, contattata dalla moglie, è uscito con l’obbligo di firma ed il divieto di allontanarsi da Stoccolma, in attesa dell’udienza del 6 settembre.
Prima della pubblicazione della sentenza di condanna del 13 settembre, il consigliere comunale pugliese, precisando di non aver picchiato il figlio, ha accusato indagini poco corrette nei suoi confronti, specie in un Paese democratico: anche dopo l’arresto le autorità avrebbero sentito solo gli accusatori rifiutandosi di sentire le persone che erano con l’italiano al momento del fatto contestato e giudicando senza importanza la testimonianza del figlio.
E pensare che la comitiva pugliese sarebbe dovuta partire il giorno dopo per una crociera nei fiordi, mentre è accaduto tutt’altro: il padre in galera e i figli tornati sotto shock a Canosa con i parenti.
Questa storia, per noi apparentemente assurda, prende le mosse da una legge svedese a tutela dei minori particolarmente severa.
In Svezia, le punizioni corporali dei minori sono severamente proibite per legge, ma vale la pena di osservare che tale provvedimento umanitario è scaturito dalla necessità di porre fine ad una tradizione di violenze poco nota all’estero. La legge che vieta di percuotere i minori entrò in vigore nel 1979 (assegnando alla Svezia il primato in ordine di tempo rispetto ad altre nazioni). Fino al 1958, gli insegnanti potevano infliggere punizioni corporali agli alunni e, dopo quella data, potevano comunque informare i genitori del comportamento dei figli, esigendo che fossero loro a punirli. Fino al 1920, i padroni potevano fustigare i garzoni al di sotto dei 18 anni e le domestiche fino all’età di 16 anni e soltanto nel 1922 venne abolito il diritto dei comandanti di navi di punire a bastonate i marittimi. Soltanto tre generazioni fa era inoltre implicito il diritto del padre di famiglia di picchiare moglie e figli dopo la sbornia del sabato sera.
Di certo questa legge così severa nasce in questo contesto storico-culturale e cerca di rispondere, come può, alle esigenze che negli anni la popolazione ha manifestato, denunciando fortemente il dramma della violenza sui soggetti più deboli.
Su questo principio di base nessuno ha da recriminare; si pensi alla tanto acclamata Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e l’Adolescenza firmata a New York il 20 Novembre del 1989 ed ormai ratificata da tutti gli Stati membri.
Però questa legge sembra andare un po’ oltre questo sano obiettivo di difesa, sembra quasi voler a priori regolare in tutto e per tutto, in maniera a dir poco invasiva, il rapporto educativo tra genitori e figli, stabilendo ciò che è bene e ciò che è male, quasi in una pretesa di sostituirsi alle figure del padre e della madre. Questa è stata l’immediata impressione anche rispetto al trattamento così rigido mostrato nei confronti del nostro connazionale, che forse nasconde anche un pizzico di pregiudizio a causa della visione distorta che si ha del modo di vivere dell’italiano medio.
A tal proposito è intervenuto il professor Alessandro Meluzzi a commentare così la notizia: “Tutto questo mi sembra un messaggio straordinariamente diseducativo. Non che io ritenga che le punizioni fisiche debbano fare parte di un buon repertorio educativo, però ritengo che lo spazio comunicativo, affettivo ed emozionale in cui il Regno di Svezia si è incuneato in questa vicenda, finita addirittura con un arresto in flagranza di reato, sia assolutamente devastante: intanto per quella famiglia italiana e per il rapporto padre-figlio, e poi in generale ne viene fuori un messaggio di tipo fortemente totalitario. Credo che lo Stato possa vicariare l’educazione genitoriale e familiare solo di fronte a situazioni drastiche, ed è giusto che intervenga per esempio nel caso di un neonato abbandonato da una coppia di tossicodipendenti. Ma che la relazione tra un padre, che non è di certo uno psicotico né un delinquente, e un figlio adolescente debba sentire così pesante e invasivo la presenza dello Stato credo che rappresenti la più totale negazione non soltanto della libertà ma anche di che cosa sia l’educazione”.
È inevitabile domandarsi se è giusto che uno Stato entri a gamba tesa in ogni relazione familiare, anche la più normale, addirittura con condanne penali, senza prima accertarsi della presenza o meno di condizioni patologiche.
Pur non volendo entrare in modo specifico nella dinamica del rimprovero o dello schiaffo al figlio dodicenne, occorre però fare una distinzione tra ciò che è un richiamo e ciò che invece assume la forma drammatica della punizione corporale.
Continua il professor Meluzzi: “Questa di Colasante si può considerare una sorta di intemperanza e di reazione basata sulla comunicazione fisica, certo violenta, ma la punizione corporale è tutt’altra cosa, come le sculacciate, lo scudiscio o i colpi inferti con la riga che davano un tempo gli insegnanti. Questa del consigliere è secondo me una forma di comunicazione non verbale forse impropria, inadeguata, legata ad una mancanza di controllo, ma certo non una punizione corporale, tanto che è anche avvenuta in pubblico durante una situazione di conflitto facilmente risolvibile e che non avrebbe avuto nessun esito, se non fosse stato per l’intrusività totalitaria dello Stato in una faccenda del tutto privata”.
Lo Stato, specie quello svedese, dovrebbe capire, come ricorda ancora Merluzzi, che “il processo educativo è una cosa che si costruisce giorno per giorno all’interno di ogni rapporto, di ogni famiglia e in modo diverso con ogni figlio, perché ogni ragazzo ha una personalità e una sensibilità diversa. Si tratta quindi di un percorso individuale e personalizzato… è una sfida, e come tale non può essere standardizzato neppure all’interno della stessa famiglia, per cui figuriamoci se può essere affidato ad una linea guida statuale”.
Magari sarebbe più fecondo un intervento statale a sostegno della famiglia, sia da un punto di vista economico, che sociale e culturale; e quindi sostenere tutto ciò che ruota attorno alla famiglia, come il lavoro, la scuola, i centri ricreativi, lo sport, i doposcuola.
Di certo così ci si potrebbe aiutare a diminuire anche ogni forma di maltrattamento, sia fisico che psicologico, perché dando dignità alla persona, padre, madre, figlio, si aiuta la stessa a vivere meglio con sé e con gli altri.