La recente testimonianza di cristiani uccisi o perseguitati per la loro fede
Sono proprio degli ultimi giorni alcune tremende notizie, che come sempre non vengono molto pubblicizzate se non dalle agenzie di stampa che sostengono l’operato dei missionari nel mondo, sugli attentati a minoranze cristiani.
La polizia dello Stato indiano di “Jammu e Kashmir” ha arrestato una coppia di cristiani, Mafford Maharaj Singh, 62 anni, e sua moglie Kusum, 60, nel comune di Bandipora con l’accusa di “promuovere l’odio” insieme a una ragazza del luogo, disturbando la popolazione locale nel mercato cittadino. Proprio alcuni passanti infatti hanno iniziato a gridare attirando gli agenti perché secondo loro la coppia stava distribuendo opuscoli sulla fede cristiana. I figli dei coniugi, originari di New Delhi, hanno raccontato una versione del tutto diversa: “I nostri genitori sono andati a Srinagar il 16 aprile scorso per partecipare a un matrimonio. Il giorno seguente, mentre facevano delle compere al mercato, parlando con un venditore nostro padre ha detto di essere cristiano: sono stati insultati, picchiati e infine arrestati dalla polizia locale” (leggi l’articolo).
La mattina del 14 aprile è accaduto invece nel Vietnam che un gruppo di teppisti, con la collaborazione delle forze dell’ordine, ha assaltato l’orfanotrofio cristiano di Hanoi, l’Agape Family, danneggiando l’edificio e malmenando anche i bambini ospiti del centro. I teppisti hanno ferito in modo grave anche un sacerdote, intervenuto a difesa delle piccole vittime innocenti.
La struttura è sostenuta dal lavoro di volontari cattolici e dal contributo attivo di p. Nguyễn Văn Bình, vicario della parrocchia di Yên Kiện, nell’arcidiocesi di Hanoi (leggi l’articolo).
Ed ancora Shamin Bibi, di 42 anni, cristiana, operaia e madre di cinque figli, è cittadina del distretto di Toba Tek Singh (nell regione di Punjab posta a cavallo della frontiera tra India e Pakistan) che è stato teatro di un attacco contro la minoranza religiosa nel 2009 che ha portato alla morte di diverse persone. Poco dopo la metà di marzo è stato attaccata, picchiata in modo brutale in pubblico da un gruppo di mafiosi musulmani. Poco dopo, anche il figlio ventiduenne Naqshaq Masih ha subito la medesima sorte: prima picchiato con dei mattoni, quindi gli hanno sparato dei colpi di pistola ferendolo gravemente. A compiere il raid punitivo contro la famiglia cristiana, si è saputo, sono stati due fratelli legati alla mafia delle terre locali e liberi di agire impunemente all’interno del villaggio. A dir poco assurde le ragioni alla base dell’aggressione: i cristiani non sono autorizzati a “vestirsi a festa”, nemmeno in occasione di feste particolari o la domenica per la messa. I membri della minoranza religiosa, infatti, sono considerate persone di seconda fascia, quasi alla stregua degli animali, e non hanno alcun diritto di indossare capi eleganti ma “solo stracci”. È accaduta a metà marzo, ma in un mese né la polizia né la magistratura sono intervenute per garantire giustizia e punire i responsabili (leggi l’articolo).
Per non parlare dei trentacinque cristiani di origine etiope che dal 15 dicembre scorso sono detenuti in carcere in Arabia Saudita, per aver commesso il crimine di essersi riuniti in casa di un privato, nella città di Jeddah, per pregare. Quel giorno la polizia saudita ha fatto irruzione nella casa dove i cristiani, soprattutto donne, si erano riuniti e li hanno arrestati e portati in cella. Nonostante le pressioni internazionali, anche degli ultimi giorni, l’Arabia Saudita si è rifiutata di rilasciare i prigionieri (leggi l’articolo).
Anche in Pakistan, che ha visto la morte del ministro cattolico per le minoranze religiose, Shahbaz Bhatti, la situazione è drammatica, ma a sostenere i cristiani stavolta c’è un grande evento. Difatti sentimenti di lutto e paura si mescolano alla gioia e alla speranza nel Vicariato Apostolico di Quetta. Martedì 17 aprile un cristiano, Hyrak Maseeh, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da uomini non identificati, mentre percorreva la Samungly Road e secondo fonti di Fides nella Chiesa locale, “è molto probabile che l’episodio sia dovuto a una aggressione di estremisti islamici”. Qualche giorno dopo ossia il 21 aprile, invece, nella cappella della San Joseph Convent School di Quetta, è stato celebrata la prima ordinazione di un sacerdote cattolico in Beluchistan. Si tratta del diacono Gulshan Barkat, degli Oblati di Maria Immacolata, che ha completato la sua formazione, dopo aver studiato anche a Roma. Il dono del primo sacerdote ordinato in Beluchistan, nota a Fides il diacono Gulshan, “ha un alto valore simbolico: intende dare una testimonianza cristiana e promuovere vocazioni sacerdotali e alla vita religiosa in questa provincia”, agitata da violenza settaria e da una antica ribellione delle popolazioni locali contro il governo (leggi l’articolo).
Alla luce di tutti questi dolorosi episodi accaduti solo negli ultimi giorni siamo ancor più provocati a verificare l’autenticità della nostra fede e della nostra appartenenza. I tragici eventi accaduti non sono la conseguenza di chissà quali provocazioni o ingerenze… ma semplicemente del fatto che si è cristiani, semplicemente ci si ritrova a pregare o del fatto che ci si veste a festa nei giorni di festa.
Se al nostro Occidente tutto questo può sembrare a dir poco impensabile, quanto continua ad accadere dimostra come in altre parti del mondo solo il fatto di essere cristiani genera persecuzione. Per donne e bambini compresi.
Eppure la perseveranza di questi “involontari” testimoni lascia trasparire la radicalità della loro fede in Cristo. Conoscendo la vita di questi nostri compagni nella fede, le cui vicende probabilmente a loro insaputa ci continuano a raggiungere, siamo sostenuti proprio nel nostro cammino, a vivere la fede come l’incontro con un Avvenimento decisivo, necessario, irrinunciabile, vitale …. per cui solo si può essere disposti a mettere continuamente a repentaglio la propria vita.