La guerra in Darfur continua ad uccidere anche i bambini
Alcuni quotidiani in questi giorni hanno dato una notizia a dir poco terrificante: il 21 ottobre scorso il Tribunale Speciale istituito in Darfur, una regione del Sudan, grande quanto la Francia, al confine con il Ciad, ormai sfuggita a ogni forma di giustizia dato il clima di guerra che da anni si vive, ha condannato a morte dieci persone, tra cui quattro ragazzini, «sulla base di prove non attendibili» secondo quanto denuncia Italians for Darfur, che ha lanciato una petizione per salvarli.
Le imputazioni a carico dei dieci condannati sono piuttosto gravi e vanno dall’omicidio, ai danni contro lo Stato, al furto.
La condanna si basa sulla loro presunta implicazione in un attacco a un convoglio di forze governative nel Sud Darfur, avvenuto nel maggio 2010. Gli imputati sono stati indicati come appartenenti al Movimento di Giustizia ed Uguaglianza, composto da darfuriani in lotta contro le milizie dei Janjaweed e delle forze governative, entrambe protagoniste di atrocità nei confronti dei civili di questa regione.
Gli avvocati della difesa e le organizzazioni per i diritti umani locali hanno denunciato che le prove presentate dall’accusa erano parziali e che è stato negato ai detenuti il diritto a un giusto processo. Addirittura è stato impedito agli avvocati di parlare con i rispettivi assistiti prima che fosse depositata la prova della loro colpevolezza. Inoltre sia i difensori, sia le famiglie hanno potuto incontrare i prigionieri solo per mezz’ora. I quattro bambini indicati come minori sono stati imprigionati nello stesso luogo di detenzione degli adulti e sono stati trattati e giudicati come tali.
Considerato che in questi luoghi non è facile dimostrare l’effettiva età di un individuo, non esistendo sistemi anagrafici per le nascite e per le morti, gli avvocati della difesa hanno chiesto al Tribunale un esame medico in grado di stabilire se si trattasse di individui con meno di 18 anni.
Di cinque solo due degli imputati, evidentemente poco più che bambini, Idriss Adam Abbaker e Abdallah Abdallah Daoud, sono stati sottoposti a tale esame, risultando entrambi minorenni.
Un secondo accertamento ha però confermato l’esito solo per Abbaker. Il Tribunale non ha accettato la richiesta dei difensori di Abdallah di sottoporlo a un’ulteriore visita medica, per verificare i risultati contraddittori dei precedenti esami, e di permettere anche agli altri minori, Ibrahim Shareef Youssif e Abdelrazig Daoud Abdessed, di effettuare lo stesso esame.
Quindi per questi quattro adolescenti, oltre ai sei adulti, non c’è stato nulla da fare.
Gli avvocati della difesa hanno ora presentato un appello a nome degli imputati al Presidente della Corte suprema per il Darfur del Sud per tentare almeno di sospendere l’esecuzione della condanna ed ottenere gli esami medici richiesti.
Questa notizia così aberrante per noi occidentali non suscita però grande attenzione in questi paesi africani, che da anni sono purtroppo martoriati dalla guerra civile e sono quindi “abituati” a convivere con la fame, la sete, la povertà, le malattie e la morte.
È necessario, infatti, contestualizzare questa decisione giudiziaria per comprendere meglio il dolore di queste popolazioni africane.
Ormai da quarant’anni in Sudan, il più grande stato del continente africano nonché una repubblica presidenziale retta da una giunta militare, il conflitto tra il nord del paese prevalentemente arabo ed un sud cristiano animista è alimentato da una guerra civile. Certamente le differenze religiose sono state parte del conflitto, ma non di guerra di religione si tratta, bensì di una guerra per i diritti dei popoli del Sud.
Nel 2004, la condizione del Sudan è stata definita dalla Comunità Internazionale “la più grave situazione umanitaria esistente”.
Molti sono stati gli impegni intrapresi dalla Comunità Internazionale e numerosi anche i tentativi di organizzazioni Africane (tra cui l’Unione Africana) di portare la guerra civile ai tavoli di pace.
Tra i problemi esistenti quello che preoccupa di più è la situazione incontrollabile dei guerriglieri ribelli contro un governo del nord che ha imposto, sin dagli anni ‘80, il duro regime della Shari’a, la Legge coranica: si tratta dello SLM (Sudan People’s Liberation Army) e del Jem (Justice for Equality Movement) che continuano a battersi per liberare il sud dal regime imposto.
In questo clima di morte vive anche la regione del Darfur, in cui i conflitti hanno origini remote e risalgono agli scontri fra le popolazioni nomadi arabe e le popolazioni stanziali africane per le risorse vitali come terra e acqua.
In questi ultimi dieci anni è inoltre scoppiato un conflitto sanguinoso che, giorno dopo giorno, vede bande di predoni, i cosiddetti Janjaweed, imperversare sulla popolazione locale, di religione musulmana, scontrandosi con i guerriglieri dello Slam (“Sudan liberation movement-army”, Esercito-movimento di liberazione del Sudan, legato allo Spla), che accusa il governo di Karthoum di appoggiare i predoni Janjaweed.
Agli inizi del 2003 questo conflitto è esploso ancora di più, e allo Slam si è affiancato un altro movimento di ribelli, il Jem (“Justice and equality movement”, movimento per la giustizia e l’eguaglianza), movimento a cui sono accusati di appartenere anche i minori condannati a morte.
Quindi non possiamo esimerci dal vedere in che ambiente stanno crescendo questi poveri bambini, che al posto del pane, dei libri di scuola e dei giochi sono costretti ad assistere alla morte di molti uomini, anche loro parenti o vicini di casa, ed a volte ad imbracciare un fucile per evitare di essere giustiziati senza pietà in virtù di un’ideologia fratricida.
Non sappiamo se veramente questi ragazzi facciano parte dei ribelli contro il governo, ma di certo sappiamo in che mondo sono costretti a crescere, un mondo che magari li convince che quella di sparare è l’unica soluzione al male che li affligge dalla nascita.
Premesso che la condanna a morte andrebbe bandita da tutti gli Stati del mondo, perché è irrazionale ed immorale pensare che alla violenza si risponde con la violenza, ci domandiamo se dietro questa condanna non ci sia più un intento, forzato dalla mano del governo, di giustiziare più ribelli possibile, rischiando di far pagare al giusto per il peccatore; ciò lo dimostra l’ingiusto processo che i dieci condannati hanno subito!
Ricordando a ciascuno di noi il monito di Gesù rivolto a chi fa del male agli indifesi, “è meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli” ci uniamo alla preghiera della minoranza cristiana che vive in Sudan chiedendo al Signore che apra i cuori dei governanti e dei giudici perché possano cooperare alla difesa del bene comune e primi fra tutti della vita e della dignità di ogni individuo.