La diversa faccia della stessa medaglia
Ancora due donne morte dopo aver utilizzato la Ru486. Questa è la triste notizia che ci giunge, solo ora, da tre esperti dei Cdc (Centres for Disease Control and Prevention) di Atlanta, nell’ultimo numero della prestigiosa rivista scientifica New England Journal of Medicine. Riferiscono i giornali che i decessi sono per shock settico da “Clostridium sordellii”, la fatale infezione che ha già ucciso sei donne finora, mentre per una settima lo shock era dovuto a un altro tipo di Clostridium, il “Perfringes”. Tutte dopo l’interruzione di gravidanza attraverso la pillola.
Di questi due decessi il primo risale al 2008: una donna di ventinove anni alla quinta settimana di gestazione, cinque giorni dopo aver assunto la Ru486 si è ricoverata con tutti i sintomi della terribile infezione, tranne la febbre, e ventiquattro ore dopo è morta, dopo l’estremo tentativo dei medici di salvarla con l’asportazione di utero, ovaie e tube di Falloppio. Questa donna soffriva di diabete, mentre l’altra era sana, aveva ventuno anni ed era alla settima settimana di gravidanza. Ricoverata in ospedale una settimana dopo la somministrazione della Ru486, anche lei con i sintomi della sepsi ma non la febbre, è morta dopo un’agonia di altri cinque giorni.
Da subito si è cercato di giustificare questi decessi attribuendo responsabilità agli operatori sanitari; difatti alle due donne non erano stati prescritti antibiotici. Eppure gli esperti chiariscono che non si conosce bene quale sia la quantità di antibiotico che possa effettivamente prevenire l’infezione letale.
Il fatto che ulteriormente emerge apprendendo queste notizie è che sembra molto strano che le complicanze addirittura letali legate all’utilizzo della RU486 accadano solamente negli Stati Uniti; sembra evidente che la spiegazione stia nella maggiore trasparenza delle informazioni e, probabilmente, nella vigilanza specifica da parte delle autorità sanitarie americane.
Lo stesso non si può dire per altri Paesi: ad esempio delle cinque morti inglesi successive all’interruzione di gravidanza con Ru486 – due nel 2008 – si è avuta notizia solo dopo che il nostro Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali ha fatto un’esplicita richiesta alla ditta che produce la pillola. La “libera” stampa inglese non ne aveva affatto parlato.
Una triste contabilità, quindi, ci dice che dopo la somministrazione di Ru486 sono morte diciannove donne che avevano abortito, e dodici persone che avevano preso il farmaco per “uso compassionevole”, cioè al di fuori di protocolli stabiliti, per un totale di 31 vittime certificate sinora nel mondo. Non vanno poi dimenticate altre due donne morte dopo aborto farmacologico, per il quale però era stato somministrato solo la prostaglandina.
Ci continuiamo ancora a domandare cosa ci sia di così libero e scientificamente sviluppato nell’assumere un farmaco che sembrerebbe la panacea di tutti i mali, mentre statisticamente sviluppa morte, disagi fisici e psichici.
Con tanta leggerezza si propone di far assumere la Ru486, prospettando così alle donne “più emancipate” una via di uscita dai loro problemi più semplice e meno invasiva e sbandierando il motto della tutela della salute della donna; ma in tutto questo dove sta la considerazione della vita di un figlio che già c’è sebbene non sia proprio in grado di difendersi? Ma dove sta anche il rispetto della salute della donna, a cui vengono tenute nascoste le complicazioni e le potenziali conseguenze sul suo stato fisico e psichico dopo l’assunzione della Ru486?
Perché si continua a morire dopo l’aborto farmacologico, e nessuno lo dice con chiarezza!
Oltre all’ideologia, dietro alla conclamata libertà di agire, ci sono evidentemente interessi economici e politici molto più alti di quanto vogliamo farci comprendere. Si pensi solo alle potenti e mondiali holding delle case farmaceutiche!
La diversa faccia della stessa medaglia, dell’uomo che vuole sempre più sostituirsi a Dio, ci viene fornita da un’altra notizia, appresa dal quotidiano Avvenire dello scorso 1 ottobre sul grande business della fecondazione artificiale (Il grande business della fecondazione artificiale – Uganda, la fabbrica dei gemelli) .
Già dal settembre 2001 in un autorevole consesso internazionale dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), esperti ed operatori del settore esaminarono pubblicamente per la prima volta la possibilità e l’opportunità di introdurre tecniche di fecondazione assistita nei Paesi in via di sviluppo. Difatti si dichiarò che in maniera sorprendente, pur essendo l’Occidente a vantare il tasso di nascite più basso, le stime parlavano dell’Africa come della regione con uno dei maggiori tassi di infertilità del mondo, specialmente di quella secondaria (l’impossibilità di avere altri figli dopo il primo), mentre il primato dell’infertilità primaria (cioè l’impossibilità di concepire) spettava all’Asia.
Per fare alcuni esempi: nel 2004 è iniziata l’offerta di fecondazione assistita a Kampala, in Uganda, in una clinica ricavata da un appartamento in una palazzina. Nell’agosto del 2006 la rivista Nature ha invece dedicato un lungo articolo all’argomento rivelando che nell’Africa sub sahariana operavano già più di venticinque cliniche private che offrono servizi di IVF. “Il primo bambino è nato a Lagos, in Nigeria, nel 1989 ma un trattamento costa circa 2500 dollari, un prezzo troppo elevato anche per le classi sociali a reddito medio. Per abbassare i prezzi si cercano nuovi protocolli con materiali e procedure diverse e meno onerose economicamente di quelle adoperate in occidente, che però richiedono nuove sperimentazioni, e comunque sono meno efficaci”. Cliniche analoghe lavorano anche in Tanzania (Arusha) e Sud Africa (Cape Town).
Il motto che viene portato avanti a giustificazione di tali operazioni è che “l’infertilità ha la potenzialità di distruggere la pace, esacerbare la povertà e devastare le comunità”.
Si vuole insomma rispondere ad un grido di dolore, anche se risulta a dir poco incredibile, visti i trascorsi decenni di allarmi per la sovrappopolazione del pianeta, e considerate le politiche antinataliste, promosse anche dall’Oms, nelle stesse zone del pianeta che oggi sembrano minacciate dalla sterilità (ad esempio in India o in Bangladesh).
Insomma tutto sembra a tema, anzi paradossalmente tutto e il contrario di tutto a seconda dei momenti e soprattutto dei profitti, piuttosto che l’uomo, il suo vero bene, il suo vero destino.
Nell’accogliere comunque il dolore di chi non può o non vuole accogliere una nuova vita nel proprio grembo, non si può non affermare con estrema chiarezza e certa evidenza che la vita è un dono prezioso, che si comprende pienamente nel momento in cui la si riconosce nella sua evidenza naturale e cioè creata, amata, desiderata; e che come tale non se ne può disporre in maniera arbitraria né tanto meno può essere il frutto di una pretesa.