L’ennesima strage in un gesto disperato. E noi?
È di qualche giorno fa l’ennesima tragica notizia che, piombando nel trambusto delle nostre case attraverso il TG, almeno per un attimo ci ha lasciato improvvisamente in silenzio, incapaci di qualsiasi commento. A San Felice Extra, frazione di Verona, la sera del 20 novembre 2008, un uomo di 43 anni, Alessandro Mariacci, ha ucciso a sangue freddo la moglie ed i 3 figli. Poi, sdraiato sul letto matrimoniale, si e tolto lui stesso la vita.
Questo quanto sembra emergere dalle prime ricostruzioni: i due bimbi più grandi, di 6 e 9 anni, hanno ricevuto un colpo di pistola alla fronte mentre dormivano nella loro cameretta; la donna è stata freddata con una pallottola al cranio mentre guardava la tv sul divano, dopo essere stata colpita anche ad un braccio, alzato probabilmente nel tentativo di difendersi; il piccolino, 3 anni, colpito anche lui alla testa mentre giocava con i soldatini vicino alla mamma.
La questura sta in queste ore indagando sul movente della strage, di cui sembra apparentemente non esserci traccia. I Mariacci erano infatti una famiglia benestante, benvoluta e rispettata; persone “perbene”, insomma. Stimato commercialista lui, avvocatessa lei. Lo dimostra il fatto che i vicini, pur avendo sentito i colpi, non si sono minimamente insospettiti. Così il massacro è stato scoperto solo la mattina seguente dalla donna delle pulizie.
Dalle prime testimonianze raccolte, la vita di quella famiglia sembrava scorrere in invidiabile serenità. Mai un litigio, un’alzata di voce. Alessandro era considerato dai colleghi una persona molto equilibrata. Nessun problema fisico o economico a giustificare l’accaduto.
Ecco come si è consumato l’ennesimo dramma domestico, l’ennesima furia assassina che “inspiegabilmente” colpisce uomini e donne qualunque, gente comune, onesti lavoratori, padri e madri di famiglia, studenti universitari, vicini di casa, fidanzati…E ciò che più ci travolge è che non sembra esserci un “perché”, da cui spesso ci lasciamo attutire il colpo. Non c’è un “perché”. In questi giorni ci hanno provato, investigatori e giornalisti, a trovare delle zone d’ombra, delle crinature dentro o fuori la famiglia, ma cosa cambia?
Desta indignazione ed inquietudine l’ultimo rapporto Eures sull’omicidio volontario in Italia: nel 2006, un omicidio su tre è avvenuto in ambito familiare, con un incremento del 12% rispetto all’anno precedente. Immediatamente nella nostra mente riecheggiano i violenti accadimenti che ci hanno interrogato e scandalizzato in questi anni.
Seppur non dimenticando la responsabilità morale e civile di chi compie così gravi crimini, lanciamo una provocazione: siamo noi, che inorridiamo e con sufficienza ed estrema velocità tacciamo di “pazzia” chi si macchia di tali delitti, poi così diversi? Siamo noi più bravi? Più buoni? Migliori?
Di fronte a queste tragedie la nostra reazione è spesso, troppo spesso, lo scandalo, l’allontanamento, il non (voler?) capire, l’additare ad un inspiegabile raptus di un padre modello.
Non comprendiamo perché in fondo ci sentiamo più buoni, o perlomeno abbastanza buoni da non… Ed invece più che mai ci siamo sentiti “vicini” alla drammatica disperazione di quell’uomo, apparentemente sereno, appagato, equilibrato… ma evidentemente non felice.
Se fossimo almeno un po’ più leali con noi stessi inevitabilmente – ciascuno con la propria storia, il proprio temperamento, la propria libertà – ci accorgeremmo che quella fragilità, quella mancanza, quel senso di incompiutezza che in maniera più o meno incalzante sentiamo urgere dentro e che non sappiamo spiegare, appartiene ad ognuno di noi, ad ogni uomo. E ciascuno, con più o meno goffi tentativi, tenta di colmare quel vuoto: con i figli, la carriera, la realizzazione personale… senza accorgercene, maltrattiamo la nostra vita ed il nostro cuore, che riempito di ciò che non sazia esplode, fino anche all’estremo all’annullamento violento e totale dell’esistenza propria e dei propri cari.
Può accadere però – e così continua ad accadere da 2008 anni – che la nostra vita, così assetata ed affamata, logorata dall’usura di cibi e bevande che non saziano, si imbatta con Uno, con la presenza viva e contemporanea di un Uomo che ha la pretesa di essere “vero cibo e vera bevanda”. Quell’uomo di nome Gesù, quell’Innocente che accollando sul legno della sua croce il peso dei nostri peccati (anche del più bieco assassino) muore per noi, per amore alla nostra miseria, al nostro peccato. Cristo Gesù, che ci redime, ci purifica col Suo sangue sparso per noi e ci salva risorgendo il terzo giorno. Così è accaduto a noi. Ed è Lui, solo Lui, la nostra Speranza.
Nessuno si può sentire così estraneo a quanto è accaduto perché nessuno di noi potrà mai trovare in sé la speranza della vita. La speranza non è in noi, nella nostra forza, nella nostra capacità nella nostra realizzazione famigliare o lavorativa, nei nostri sogni e nei nostri progetti…e nemmeno nei nostri figli.
“Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è «veramente» vita” (Spe Salvi 31).