Divorzio breve: semplificazione burocratica o del dramma?
La legge attuale sul divorzio, approvata nel 1970 dopo un aspro dibattito ed un referendum popolare favorevole, prevede che la cessazione definitiva degli effetti civili del matrimonio può essere pronunciata solo dopo tre anni dalla sentenza di separazione.
Tutto ciò perché il contesto di forte contrapposizione in cui la legge è nata ha indotto il legislatore di allora a trovare una mediazione; difatti l’elemento più importante di tale mediazione è stata proprio l’introduzione del periodo di separazione legale quale principale presupposto per ottenere il divorzio, trascorsi almeno tre anni dalla separazione stessa.
In questi giorni, però, la commissione Giustizia dopo aver lavorato sul testo di legge del cosiddetto divorzio breve, che da qualche tempo sta interessando la nostra politica, ha concluso l’esame dei vari emendamenti proposti dai diversi partiti; ora il testo deve essere approvato alla Camera e poi passerà al Senato.
In particolare questo testo prevede che il periodo dei tre anni dalla separazione dei coniugi venga ridotto ad uno o a due in presenza di figli minori, il tutto in un’ottica di semplificazione.
Insomma si sta rimettendo mano alla legge più discussa degli anni ‘70 per togliere l’ultimo ostacolo all’esercizio della tanto vantata libertà di fare della propria famiglia ciò che si vuole senza perdere troppo tempo nei carteggi burocratici. Invece che perdere tempo nei tre anni dalla separazione per arrivare al divorzio definitivo che mette una pietra sopra alla storia d’amore, sarebbe meglio dare a chi vuole la facoltà di cambiare pagina al più presto.
La legge aveva una sua ratio di tutela della famiglia, vale a dire concedere a quelli che ancora sono considerati coniugi a tutti gli effetti un tempo di riflessione sulla crisi vissuta, per smorzare la conflittualità, per mettersi in discussione, e, perché no, anche per ricongiungersi.
Il professor Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa di Roma nonché Presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano ha così commentato la notizia: “Dal punto di vista giuridico si tratta di un passo avanti deciso verso lo stravolgimento della politica legislativa introdotta con la legge del 1970, che era di considerare il divorzio come extrema ratio in caso di impossibilità di ricostituire la comunione di vita tra i coniugi. Il provvedimento tecnicamente non sostituisce la vecchia legge ma introduce alcuni emendamenti importanti. L’impressione è che venga fuori una legge che, al di là del giudizio morale che se ne può dare, comporti una banalizzazione del divorzio, soprattutto di fronte a un’ipotesi consensuale. In generale sono contrario a questa riforma perché ritengo i tre anni un tempo opportuno, ma lo sono se si mette in moto un’azione per cercare di far superare ai coniugi le loro difficoltà”.
Infatti non possiamo dimenticare che l’esperienza giuridica italiana nasce con un matrimonio indissolubile e che sicuramente l’introduzione del divorzio è andata a forzare la tradizione storica e sociologica che ha formato la cultura generale, oltre che il nostro ordinamento giuridico.
Se in effetti si volesse analizzare come è stato disciplinato l’istituto del matrimonio in Italia, basterebbe andare a riprendere il Codice civile del 1865, entrato in vigore il 1° gennaio 1866, con il quale fu introdotta la celebrazione del matrimonio civile quale unica forma di matrimonio valido per tutti i cittadini, senza alcun riferimento ad una sua eventuale cessazione. Con il Concordato Lateranense stipulato l’11 febbraio 1929 tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano si diede voce a chi desiderava un matrimonio religioso che avesse anche effetti civili, istituendo il cosiddetto matrimonio concordatario (modificato dalle successive bilaterali intese del 1984).
Poi con il codice civile del 1942 i giuristi hanno chiarito meglio come il matrimonio sia “l’istituto giuridico tramite il quale due persone, di diverso sesso e in possesso dei requisiti richiesti dalla legge italiana, ufficializzano liberamente e volontariamente davanti ad un ufficiale dello stato civile (Sindaco o suo delegato) e alla presenza di due testimoni il loro legame finalizzato alla formazione di una famiglia, cioè di un nucleo familiare stabile, spesso comprensivo anche di figli”. Trattasi tuttora di un diritto fondamentale della persona, riconosciuto, garantito e protetto innanzitutto dalla Costituzione italiana, laddove afferma che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», il quale è ordinato alla uguaglianza morale e giuridica dei coniugi» (art. 29).
Quindi non c’è nessun riferimento al divorzio nell’alveo del diritto italiano; esso è stato introdotto solo molto in seguito sulla scia delle proteste sessantottine.
Non a caso, sempre il professore Dalla Torre ha affermato: “Non è questo il modello di famiglia voluto dalla Costituzione. Bisogna ritornare a una valutazione più riflessa sulla famiglia, che non è un fatto solo privato ma che riguarda invece l’intera società. Il diritto infatti non può reggere situazioni che non si reggono da sole, occorre allora acquistare la consapevolezza della famiglia che nasce dal matrimonio come fatto pubblico e stabile nel tempo. Solo lì raggiunge le sue finalità solidaristiche tra coniugi e tra generazioni. Se quando finisce l’utile si scappa, la conclusione è che nessuno vuol prendersi impegni stabili. Ma così il matrimonio perde il suo senso antropologico e sociale”.
Oltre il diritto emerge una inevitabile domanda: perché? Da dove viene questa tendenza così diffusa a considerare normale il matrimonio quasi come una prova, che genera la richiesta di potersi anticipatamente tutelare in caso di fallimento? Perché è così compromessa la fiducia in un rapporto, nell’altro, in un progetto di vita comune? Perché sembra così obsoleto oltre che utopico credere al “per sempre”? Chi rende l’esperienza del “per sempre” possibile? Questo umano, così insicuro e incerto di fronte alla responsabilità, in fondo timoroso di uno slancio totale, è frutto di che cosa?
E soprattutto come si fa ad essere così sicuri che questa sia la tendenza verso la vera soddisfazione dell’uomo e del suo cuore?
Benché non vi siano statistiche globali dedicate, disponiamo invece di una serie di studi, specialmente a livello nazionale e, soprattutto, provenienti dagli Usa, che ci consentono di indurre relazione tra legami deboli e patologie, tra legami deboli e disagi, negli adulti e tanto più nei bambini (Una legge che rende “schiavi” i nostri figli).
Siamo proprio di fronte ad un processo di snaturamento dell’uomo e di conseguenza della società. La società e la civiltà giuridica a tutti i livelli ci stanno rinfacciando le amare e inevitabili conseguenze di un uomo che “cerca di esistere soltanto positivisticamente, nel calcolabile e nel misurabile”. Proprio questo ha affermato il Santo Padre nel Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici lo scorso 25 novembre, ribadendo l’unica possibilità capace di ridare all’uomo la sua dignità. Queste alcune parole del Papa Benedetto XVI: “Non dovremmo mai stancarci (…) di ‘ricominciare da Dio’, per ridare all’uomo la totalità delle sue dimensioni, la sua piena dignità. Infatti, una mentalità che è andata diffondendosi nel nostro tempo, rinunciando a ogni riferimento al trascendente, si è dimostrata incapace di comprendere e preservare l’umano. La diffusione di questa mentalità ha generato la crisi che viviamo oggi, che è crisi di significato e di valori, prima che crisi economica e sociale. L’uomo che cerca di esistere soltanto positivisticamente, nel calcolabile e nel misurabile, alla fine rimane soffocato. In questo quadro, la questione di Dio è, in un certo senso, «la questione delle questioni». Essa ci riporta alle domande di fondo dell’uomo, alle aspirazioni di verità, di felicità e di libertà insite nel suo cuore, che cercano una realizzazione. L’uomo che risveglia in sé la domanda su Dio si apre alla speranza, ad una speranza affidabile, per cui vale la pena di affrontare la fatica del cammino nel presente (cfr Spe salvi, 1)”.
Questo intervento legislativo di semplificazione meramente burocratica è solo l’ennesima evidenza di come l’uomo si trovi più facilmente a volersi togliere di dosso il dramma del rapporto con la realtà più che andare al cuore della questione; anche il fallimento di un matrimonio, invece, potrebbe essere l’occasione di mettersi di fronte al bisogno di Infinito che ciascuno di noi è, che non può essere colmato dalla bieca logica del “morto un Papa se ne fa un altro”.
Questo tempo dei tre anni, che la legge ha previsto, è in qualche modo a custodia di un lavoro personale, sempre che uno lo voglia – e comunque a tutela anche delle parti coinvolte, figli in primis – e può essere una grande possibilità, dovutamente sostenuta, di mettersi, magari per la prima volta, di fronte al proprio umano che nei suoi bisogni finiti grida il suo bisogno di Infinito.