Aumenta la crescita dei suicidi tra i minori
In questi giorni una risoluzione del Consiglio d’Europa ha sollevato una dolorosa questione: sono sempre di più in Europa gli adolescenti, ma anche i bambini, che decidono di togliersi la vita.
Rileva l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che è un fenomeno sottostimato ma “gravissimo” .
Dati esatti e ufficiali a livello Europeo non ci sono. Del resto quelli che sono i moltissimi tentativi di suicidio rimangono un fatto privato e non calcolabile nei numeri. Secondo il rapporto che accompagna la risoluzione, invece, i suicidi di ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 24 anni sono migliaia, più dei morti causati ogni anno dagli incidenti stradali.
“La crescita del fenomeno interessa purtroppo – ha osservato il relatore del documento, il parlamentare monegasco Bernard Marquet, – tutti i Paesi, a prescindere dalle condizioni economiche e dalla diffusione delle credenze religiose. L’argomento non deve più essere considerato come un tabù” (ANSA del 16 aprile 2008).
I tassi più alti di suicidi tra gli adolescenti e bambini, si legge nel documento, sono stati registrati in Paesi quali la Russia, l’Ungheria e la Slovenia, mentre dove la religione è più radicata come l’Italia e la Polonia, la percentuale risulta più bassa.
Le cause che spingono gli adolescenti a togliersi la vita sono indicate troppo genericamente come la sensazione di fallimento o la paura di non riuscire. Scendendo nello specifico, sempre maggiore peso hanno gli effetti di droghe, alcool e le discriminazioni a cui sono soggetti i giovani con tendenze omosessuali.
Il Consiglio europeo invita dunque i 47 Stati membri, i governi e le strutture pubbliche ad adottare una strategia efficace per affrontare questa realtà definita come un’emergenza socio-sanitaria, e soprattutto ad attivare tutte le forme possibili di prevenzione.
Ma come? La domanda che ci facciamo è: cosa dovrebbero fare Stati, governi e strutture pubbliche (visto che l’invito è a loro) per affrontare una realtà che esprime questa tragicità e per prevenirla?
Gli Stati, i governi, le strutture pubbliche… non sono un’astrazione. Alla fine siamo noi stessi, con tutti gli orientamenti, le regole e i rappresentanti che ci diamo sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno. Dunque l’invito a prendere seriamente e umilmente in considerazione tutto questo deve essere fatto all’uomo, a ciascun uomo, a ciascuno di noi. Di mezzo c’è la vita, nostra, dei nostri figli, di tutti i figli del mondo… quelli che conosciamo e quelli che non conosciamo.
Nessun uomo, nessuno di noi può sottrarsi alla domanda sul perché per un uomo, in questo caso addirittura un adolescente o peggio ancora un bambino, di razza, popolo e cultura diverse, ad un certo punto possa non valere più la pena vivere.
Perché la vita può diventare una sofferenza insormontabile e insopportabile che lascia senza fiato e senza nessuna speranza?
Nelle prime righe dell’ultima enciclica Spe Salvi del nostro Santo Padre si legge: “Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino” .
E poi ancora ai punti 26 e 27 : “L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l’uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha «redenti». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana «causa prima» del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). In questo senso è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora «sino alla fine», «fino al pieno compimento» (cfr Gv 13,1 e 19, 30). Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe «vita». Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la «vita eterna» – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi «vita»: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora «viviamo»”.
Di questo Amore infinito, gratuito, assoluto e incondizionato, di questa meta grande e sicura siamo chiamati ad essere testimoni, sempre e dappertutto ultimamente testimoni, pur dentro le nostre debolezze, riduzioni, cadute e fragilità… per noi, per i nostri figli e per tutti i figli del mondo.