Amando fino alla fine
La Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri celebrata lo scorso 24 marzo è stata un’occasione per ricordare tutti i missionari e gli operatori pastorali uccisi nel mondo versando il loro sangue per amore di Gesù e del Vangelo. Essa nasce nel 1993 ad opera del Movimento giovanile missionario delle Pontificie opere missionarie italiane (Pom) che scelse come data il 24 marzo, anniversario dell’assassinio di mons. Oscar A. Romero, arcivescovo di San Salvador, avvenuto nel 1980 mentre celebrava la Santa Messa.
“Amando fino alla fine”: questa la provocazione proposta per la Giornata di quest’anno che, giunta ormai alla sua ventesima edizione, si è estesa in molte diocesi, realtà giovanili e missionarie, istituti religiosi dei diversi continenti.
Sono i promotori stessi a sottolineare come questo motto “non vuole essere un lieto fine forzato che cancella la durezza della violenza o la tragedia di una vita spezzata drammaticamente, ma semplicemente dipinge gli ultimi istanti di coloro che, sull’esempio del Maestro, donano la vita, perdonando i loro carnefici”.
Secondo l’agenzia Fides, sono almeno mille i missionari uccisi dal 1980 al 2011. E solo nel 2011 si calcolano 26 missionari martiri: 18 sacerdoti, 4 religiose e 4 laici.
Padre Vito Del Prete, direttore della stessa agenzia, in un’intervista a Radio Vaticana ha spiegato come la maggior parte di questi omicidi avviene ancora in America Latina, dove “la Chiesa sta difendendo, nel nome del Vangelo, i diritti dei più poveri, dei più abbandonati e dei più esclusi. Poi viene l’Africa, perché è un momento di turbolenze, ma in particolare in Africa ci sono problemi di carattere prevalentemente religioso. L’Asia si sta svegliando, in particolare l’India, che prima era molto più tollerante; poi abbiamo il Laos, il Myanmar e il Pakistan che è diventato uno dei Paesi che ancora fa dei martiri. Ci sono poi anche i martiri per la fede, specialmente nei Paesi del Medio Oriente, dove recentemente si sono sviluppate posizioni fondamentaliste in Egitto e in Iraq, sperando che non avvenga in Siria. Poi ci sono i martiri per il dialogo”.
I dati confermano come il fenomeno del martirio dei cristiani sta crescendo in maniera esponenziale. Basti pensare che tra i mille morti degli ultimi trent’anni non è contata la numerosa schiera di persone uccise, che scompaiono, che vengono torturate o discriminate in diversi Paesi, come ad esempio il Pakistan, il Myanmar ed anche l’India, dove particolarmente nel Nord attualmente i cristiani vengono cacciati dai loro villaggi, e spogliati di tutti i loro beni, costretti a trovare rifugi di fortuna.
Questi dati solo a leggerli danno una fortissima sferzata ai nostri animi troppo spesso arenati nei piccoli disagi della vita quotidiana dai quali così facilmente ci facciamo completamente ghermire e determinare. Ci mettono di fronte ad una realtà presente, magari lontana dai nostri occhi ma che non può non essere viva nei nostri cuori e nella nostra preghiera: tanti nostri fratelli continuano a morire per Amore di Gesù. Sì, perché “non c’è missione senza missionari, senza gente che va, ma non c’è neanche missione senza martirio, e questo martirio fa parte anche della comunità dei fedeli, del popolo di Dio”, ha affermato sempre Padre Vito Del Prete.
Dentro quale slancio e certezza è possibile essere disposti a incorrere in pene e torture, fino alla pena capitale, considerando gli esiti estremi della proprio vocazione come sacrificio della propria vita, rendendo così testimonianza (la parola martire deriva infatti dal greco e significa appunto testimone) alla Verità, a Cristo?
Riprendiamo per questo come aiuto un brevissimo tratto dell’intervento di Nicolino Caritas Christi Urget nos:
“In Cristo Gesù l’Amore di Dio, il suo essere Misericordia, accade in un uomo. Accade e si rivela come Uomo: ha lo sguardo di un Uomo, ha l’abraccio di un Uomo che va incontro al figlio perduto, confuso, sconfitto, abbandonato a se stesso, ha la presenza umana di un Uomo che si riversa commosso sull’umano caduto e sconfitto, senza forza e direzione. E soprattutto ha lo sconvolgente documento di un Uomo che ama sino a consegnarsi alla morte, a morire della morte che non conosce, non può conoscere, perché è Dio. Perché? Solo per Amore dell’uomo che muore e a vantaggio della salvezza dell’uomo che muore. «Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici», disse Gesù ai Suoi, sapendo di dirlo innanzitutto di sé che andava a morire per noi. «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli… chi non ama rimane nella morte… Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio, chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1 Gv3,16.14; 4,8-9). Questa è la Caritas Christi che ci deve spingere. Questo è l’Amore di Cristo che non può che essere seguito fino all’immedesimazione, perché la vita trovi il suo massimo esistenziale e realizzativo e la sua massima misura nell’Amore di Cristo che non ha misura”.
Questo è l’inaudito Amore che ci ha investito, ci investe e che muove il passo dei nostri fratelli missionari e, chiediamo che sia così, anche quello di ciascuno di noi.