Affective computing
La scienza si vanta spesso e a ragione di essere al servizio dell’uomo, o meglio di operare per migliorare le condizioni di vita a vantaggio dei singoli e della collettività. Questa, infatti, dovrebbe essere la tensione con cui effettuare ogni ricerca, attuare ogni progetto.
E con questa pretesa è stato recentemente presentato il prospetto di una nuova generazione di computer capace di emozionarsi.
Si tratterebbe di robot, alcuni dei quali già in vendita dal 2011, che capiscono se sei triste o allegro, specchi che misurano la salute, penne che aiutano a restare calmi.
In particolare si sta ideando un navigatore per auto con la pretesa di diventare una “persona” che, valutando le espressioni facciali del conducente, saprà dare giusti suggerimenti con una voce adatta al caso (ad esempio più dolce e comprensiva se il guidatore è agitato), per ovviare a malumori o assecondare momenti di allegria, indicando magari oltre alle strade più libere dal traffico anche gli eventi mondani preferiti dall’interlocutore umano, a cui poter partecipare.
In cantiere c’è anche lo specchio del bagno che “scorge” la nostra espressione abbattuta ed i segni dell’influenza, misurando anche la temperatura tramite l’osservazione del flusso sanguigno; e ci consiglia, con una scritta, di rimanere a casa al caldo. Ed ancora una penna che, “interpretando” i movimenti della mano di chi sta scrivendo, misura il suo livello di stress: quando è troppo alto la penna diventa più pesante e quindi più difficile da spostare, almeno fino a quando non si torna calmi.
Questi sono tra i risultati degli ormai decennali studi portati avanti dal Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, istituto di ricerca scientifica, in cui da diversi anni si sta studiando una nuova branca dell’informatica – il cosiddetto Affective Computing – che mira a insegnare ai computer a riconoscere le espressioni e le emozioni degli esseri umani per essere in grado di rispondere non solo a input diretti, come un clic del mouse, ma anche alle esigenze che esprimiamo in modo indiretto.
A capo del gruppo di lavoro vi è un’ingegnere informatico, la professoressa Rosalind Picard, fondatrice di questo corso di studi nel 1997. La cattedratica americana lo scorso anno ha creato un’azienda chiamata in modo significativo «Affectiva» che sta provando a commercializzare i primi prodotti tecnologici derivanti da più di un decennio di studi. Prodotti, ad oggi, principalmente rivolti ad aiutare la comunicazione con bambini affetti da autismo, che sono giunti anche in Italia (per esempio l’Istituto di Scienze e tecnologie della Cognizione del CNR di Padova, il laboratorio di Intelligenza artificiale e Robotica del Politecnico di Milano) con la produzione di iCub, un robot androide che può rattristarsi o sorridere, interagendo come un “amico bambino”.
Di per sé sembrerebbe un ottimo servizio, che tende a rendere la vita dell’uomo perfetta, senza stress e malumori! Che male c’è?
Quello che lascia interdetti è innanzitutto la pretesa, non troppo latente, di creare ad hoc “qualcuno” che finalmente colmi una solitudine, che capisca al volo le esigenze dell’altro senza necessità di spiegazioni, venendo incontro ai nostri bisogni senza troppe domande.
Si salta a piè pari la relazione umana, di cui le emozioni sono invece uno dei principali strumenti. Per capirci meglio, senza andare a scomodare gli studi antropologici, se vogliamo parlare di emozioni, è evidente come il neonato inizi naturalmente a relazionarsi con il mondo ed esprimere i suoi bisogni proprio attraverso le emozioni, senza che nessuno glielo insegni, come ad esempio il pianto o il sorriso verso la mamma o un altro familiare. È proprio qualcosa di innato, che è presente nel nostro cuore e visibile sin dal primo vagito!
Queste emozioni cercano necessariamente un “tu” e dicono che siamo creati per relazionarci. Nella dipendenza del bambino ciò ha la sua manifestazione più splendida: quel pianto esprime un bisogno che solo la mamma potrà pienamente capire e corrispondere, non un amico robot.
La macchina costruita dall’uomo cosa può fare? Certo può registrare movimenti muscolari, cambiamenti di temperatura, magari cogliere modificazioni corporee impercettibili ed associarle a tristezza ma non può far nulla per andarci a fondo; si occupa solo di calmarti e di non farti essere più manifestamente triste, suggerendoti musiche rilassanti o attività divertenti; ma non ti fa guardare il tuo dolore, non entra con te a giudicarlo come può fare un amico, anzi tenta proprio di fartelo saltare. Un robot non può soddisfare il tuo cuore, non può spiegare ma nemmeno pienamente accogliere il tuo dolore, condividere la tua gioia; può al massimo dirti di fare una cosa per non pensarci: è una nuova generazione di calmante.
Traspare con evidenza la concezione di base di una realtà non buona, che è solo stress, lotta alla sopravvivenza; e quindi “va indorata la pillola”: se sono triste, ecco un bel sorriso stampato sullo schermo del navigatore che mi invita a pensare ad altro… insomma una versione digitale della pacca sulla spalla.
Cosa ci guadagno umanamente? Perché saltare quella sofferenza o quel malumore? Ricordiamoci che Gesù ha pianto con la vedova di Nain, si è commosso con e per lei, prima di compiere il miracolo sul quel figlio, ormai morto, e non le ha detto, senza amore, “ma che piangi a fare, non ci pensare, domani è un altro giorno!”.
Inoltre come non capire che la creazione di questi robot cerca di colmare la solitudine dell’uomo con un’altra solitudine, sostituire la relazione umana con un robot che non dà problemi, ti calma e ti rassicura che tutto andrà bene; insomma mette su un sistema che non può soddisfare.
Ci viene da chiederci perché questi scienziati spendano la loro vita, la loro intelligenza, per qualcosa che non salva, che non porta al bene dell’uomo, creando delle macchine calmanti, degli uomini finti; non crediamo che lo facciano solo per soldi, ma forse il loro intrinseco intento è rispondere a quel desiderio di felicità che pulsa nel cuore e determina ogni nostra azione, emozione ed espressione. Forse pensano che un mondo perfetto sia la soluzione, ma è la realtà stessa che nega questa teoria. Non è semplicemente più umano e corrispondente al cuore condividere un dolore o una gioia con un amico? La macchina robotica può essere un aiuto a semplificare, ma oltre è solo una perdita di tempo, una spesa inutile di energie.
Siamo purtroppo evidentemente immersi nella cultura del fare le cose, di ottimizzare i compiti, rischiando di far diventare l’uomo una macchina, che deve controllare le sue emozioni e che vede così manipolato il suo io per essere sempre calmo, tranquillo e felice. Ma chi lo dice che una sana discussione tra amici, anche animata, un pianto a dirotto ed un’esternazione di malessere siano qualcosa di negativo, invece di vederli come la possibilità di capire di più se stessi?
Queste macchine sembrano servire anche alla riabilitazione dei bambini autistici; comprendendone comunque l’intento e l’impegno profuso, ci domandiamo però se non sia più sano che questi bimbi vengano aiutati ad essere più aperti alla realtà, invece di costruirgli un mondo virtuale, dato che già la loro malattia li porta a chiudersi nella propria gabbia immaginaria.
Insomma, rispettando il progresso della scienza, rimaniamo comunque interdetti di fronte a queste strane soluzioni di rendere la vita perfetta, priva di dolori, malattie e sentimenti. Scusateci se amiamo la semplicità!