Aborti in solitudine
I fatti accaduti a Napoli la settimana scorsa hanno portato alla ribalta una questione tanto delicata quanto dibattuta in questi ultimi tempi: l’aborto, con tutte le sue implicazioni sul piano morale e professionale.
Silvana è una donna di 39 anni. Abbiamo saputo dai giornali che vive con una zia nella periferia di Napoli, non è sposata, ma decide comunque di portare avanti la gravidanza. Sottopostasi all’amniocentesi, scopre che il suo piccolo è affetto dalla sindrome di Klinenfelter, un’alterazione ormonale dovuta ad una anomalia cromosomica.
Silvana, chissà con quanto dolore, decide di abortire: è alla ventunesima settimana e si rivolge al Policlinico di Napoli. È qui che scoppia il caso: i poliziotti, avvisati forse da un infermiere, arrivano nel reparto di ostetricia, fanno qualche domanda alla donna e decidono di sequestrare il feto e la cartella clinica, un’operazione che dura in tutto 35 minuti. Non un blitz, come in molti hanno gridato, ma un dovuto intervento a seguito di una denuncia di sospetto infanticidio.
Fin qui i fatti. Quello che però dovrebbe emergere da questa vicenda, ma che non è stato preso in considerazione, è il dolore di questa donna, la probabile solitudine in cui si è trovata: qualcuno le ha spiegato che in molti casi quella patologia è perfettamente compatibile con la vita? I servizi previsti dalla legge 194 hanno funzionato come dovrebbero? (Avvenire 15.02.2008)
A questa donna, probabilmente, non è stata data alcuna alternativa oltre all’interruzione di gravidanza: non c’è sostegno e speranza per una donna sola che ha in grembo un bimbo malato!
Ed invece non è così, perché nella stessa legge 194 sono previsti interventi concreti al fine di rendere l’aborto l’ultima soluzione possibile, cioè quando proprio non c’è più nessuna strada da intraprendere. Inoltre esistono movimenti e comitati per la vita, e, nel caso specifico, anche organizzazioni che accompagnano i genitori nel dolore di un figlio con la sindrome di Klinenfelter, che portano la loro esperienza personale e che addirittura indirizzano verso centri medici specializzati, anche perché questa malattia in molti casi è curabile e permette una vita normale.
Diceva Silvana ad una poliziotta con le lacrime agli occhi: «Sarebbe stato il mio primo figlio. Lo volevo a tutti i costi. Ma come si fa a sospettare che sarei ricorsa all’aborto per disfarmene? Sapesse il dolore che ho provato quando ho saputo che il bimbo non sarebbe stato normale…». «Che altro avrei potuto fare?».
Ecco questo è il vero scandalo: nessuno si è accorto, a partire dai medici, della paura, della solitudine, dell’angoscia e alla fine delle condizioni disumane nelle quali si è compiuta la tragedia di una donna che desiderava con tutto il cuore il suo bambino e che poi ha scelto di non farlo nascere perché nessuno ha accolto con lei il valore di quella vita.