Pensano di liberarsi. Invece è una menomazione
Arriva la pillola che sopprime le mestruazioni
Nelle intenzioni della casa farmaceutica Wyeth il lancio negli Usa della pillola che sopprime le mestruazioni doveva essere un trionfo – la buona scienza che offre alle donne la realizzazione di un sogno. Ma le cose non paiono procedere esattamente come nelle previsioni. Da intellettuali e femministe americane si alzano voci di protesta: il ciclo naturale della donna, dicono, non è una malattia da sopprimere. Una multinazionale non punta però milioni di dollari su un farmaco, se non avendo prima fatto i suoi calcoli: dai quali risulta che due terzi delle americane sarebbero liete di potersi liberare di quella che considerano solamente una seccatura. Dunque, intellettuali a parte, il mercato per la pillola “Lybrel” probabilmente c’è, e forse fra pochi anni la cancellazione del ciclo sarà cosa ovvia. Forse le donne che oggi hanno quindici anni si diranno un giorno, incredule: ma tu pensa le nostre madri, ogni mese a star male, incredibile – così come noi ripensiamo sbalordite alle nonne che lavavano lenzuola e pannolini senza lavatrice. Tuttavia, l’incedere del progresso non è sempre così radioso come pare. E questa idea di cancellare ogni traccia di ciò che segna la vita fertile di una donna sarà
forse apprezzabile dal punto di vista della produttività lavorativa, e
dell’aumento di efficienza. Solo, il prezzo è la rinuncia di una parte della propria natura. Perché soltanto a uno
sguardo superficiale quel ciclo che si ripete ogni mese è puro fastidio. Da sempre, le donne ne traggono una parte non irrilevante della loro identità femminile. L’inizio è un segnale lieto: sei una donna. E il perpetuarsi regolare, una serena conferma della fecondità. Quell’oscillare dell’umore, che al compiersi dei 28 giorni del mese lunare si inclina in una inspiegabile malinconia, pare suggerire una inconscia e non detta tristezza della censurata e silente “donna interiore”, quando avverte che nessun concepimento è avvenuto. Non solo un peso, dunque, ma qualcosa di molto più complicato, segno di identità e di appartenenza, cifra misteriosa del tempo biologico che scandisce lo scorrere degli anni – come un orologio che batta le ore. È probabile che le nuove generazioni di donne, già abituate a intervenire chimicamente sul proprio corpo con pillole anticoncezionali, del giorno dopo, abortive, oppure stimolatrici dell’ovulazione quando il figlio voluto non arrivi, trovino normale prendere un’altra pillola, che tra l’altro opera nel senso di una maggiore libertà e capacità di lavoro – in definitiva, di un adeguamento a ritmi maschili: ciò in cui sembra oggi risolversi, malinconicamente, buona parte dell’esito di tante battaglie femministe. Restano due interrogativi. Il primo, quello circa la schizofrenia di una generazione che da un lato demonizza gli ogm e paga a caro prezzo i prodotti biologici, e si batte per il rispetto della natura – e poi trova accettabile alterare un ciclo fondamentale del corpo a colpi di ormoni. Il secondo è solo un sospetto, ma un poco inquietante. Che anche l’idea di eliminare il periodo femminile rientri in una silenziosa ansia di eliminare ogni differenza, dentro a una cultura che – nel vestire, nel parlare, nel fare – ci vuole, maschi e femmine, uguali. In questo senso la pillola americana ci ricorda certi dialoghi di Huxley, dove pudicamente gli abitanti del “Nuovo mondo” alludevano al tempo in cui i bambini nascevano dalle madri, e non da uteri artificiali, con imbarazzata vergogna. Vergogna per quella umana natura ricevuta, contro
cui orgogliosamente avanzavano la loro “nuova” natura – di cui erano fieri artefici e padroni.