La missione terrena della Chiesa e la testimonianza dei lampedusani
“Avevo fame e mi avete dato da mangiare, nudo e mi avete vestito… straniero e mi avete accolto… Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Al grido di dolore dei profughi disperati la Chiesa non rimane indifferente, ma sta già da tempo mettendo in campo ogni sua umile risorsa, servendosi della disponibilità di locali parrocchiali per l’accoglienza, di volontari della Caritas e comunque di ogni uomo di buona volontà, non solo di Lampedusa ma di tutta l’Italia.
Anche il Santo Padre nel salutare i fedeli di Lampedusa presenti all’udienza generale del 27 aprile 2011, accompagnati dal loro Pastore Mons. Francesco Montenegro, li ha ringraziati per l’opera di carità che stanno rivolgendo al loro prossimo e li ha incoraggiati a “continuare nel loro apprezzato impegno di solidarietà verso i fratelli migranti, che trovano nella loro isola un primo asilo di accoglienza”; nello stesso tempo ha auspicato “che gli organi competenti proseguano l’indispensabile azione di tutela dell’ordine sociale nell’interesse di ogni cittadino”.
Benedetto XVI non ha dimenticato poi di rivolgere la sua accorata preghiera per la pace; difatti, durante il Regina Caeli del 15 maggio 2011, ha manifestato la sua apprensione per il “drammatico conflitto armato che, in Libia, ha causato un elevato numero di vittime e di sofferenze, soprattutto fra la popolazione civile”, rinnovando “un pressante appello perché la via del negoziato e del dialogo prevalga su quella della violenza, con l’aiuto degli Organismi internazionali che si stanno adoperando nella ricerca di una soluzione alla crisi”. Il suo pensiero è andato “anche alla Siria, dove è urgente ripristinare una convivenza improntata alla concordia e all’unità”, chiedendo “a Dio che non ci siano ulteriori spargimenti di sangue in quella Patria di grandi religioni e civiltà” e nello stesso tempo invitando “le Autorità e tutti i cittadini a non risparmiare alcuno sforzo nella ricerca del bene comune e nell’accoglienza delle legittime aspirazioni a un futuro di pace e di stabilità”.
La gente di Lampedusa è per tutti noi esempio di una fede elementare, quella fede feriale di chi semplicemente vive la propria realtà nella coscienza che lì Gesù abita. Di quella fede di chi si fa accanto al prossimo in modo semplice, così come Gesù stesso indica come suo metro di giudizio alla fine dei tempi (Per chi viene e per noi – Avvenire 19/05/2011; Il potere dei segni – L’Amico del popolo).
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna” (Mt 25, 31-46).
Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti… solo ed unicamente perché nel volto del nostro prossimo vive il volto di Cristo. Solo ed unicamente perché Cristo così ci chiede di amarlo e Lui per primo così ci ama, continuamente visitando, dissetando, sfamando ed accalorando il nostro cuore. Il nostro cuore infermo, il nostro cuore forestiero e incarcerato nelle nostra menzognera e fallace misura finché non trova ristoro e pace in Lui, in Lui che solo lo può pienamente e continuamente compiere e redimere.
Sì perché noi siamo costitutivamente questa attesa di Tutto, di Totalità, di Infinito. “Noi siamo questo bisogno di tutto: non inteso come bisogno di una innumerevole e interminabile molteplicità di cose, di fattori o rapporti… ma inteso come essere bisogno, come essere fame e sete del Totalmente altro, della Totalità, dell’Infinito che ci costituisce e a cui originalmente apparteniamo” (Nicolino Pompei).
La fede è questo riconoscimento: siamo fame e sete… e Cristo è l’unico in grado di sfamarci e dissetarci pienamente: “chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv, 4, 14). E ancora: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6, 35).
È proprio elementare, per un cuore leale. Semplicemente cogliere in ciascuna creatura lo stesso bisogno che noi stessi siamo. Bisogno di amore, di felicità. Desiderio di una vita piena, degna.
Non contano il colore della pelle, i tratti somatici, la lingua parlata… e nemmeno la religione professata. Sì perché ogni uomo, di qualsiasi cultura, provenienza ed anche epoca, è nostro fratello, che Dio ama indistintamente, come il sole che non nega a nessuno il calore dei suoi raggi.
Noi che ci diciamo cristiani siamo quotidianamente chiamati a verificare la nostra fede. E qual è il terreno di questa verifica?
“L’ambito proprio di verifica della fede in Gesù Cristo (…) non sarà mai nel terreno di un discorso. Nel discorso possiamo anche essere impeccabili, dei maestri, ma la verifica della fede sarà sempre nel rapporto con la realtà, nel nostro umano in rapporto con la realtà, con quello che viviamo, vediamo, tocchiamo, scegliamo ci rapportiamo… è lì che tutto diventa trasparente e si afferma nella sua verità” (Nicolino Pompei).
E per chi vive a Lampedusa oggi la realtà è segnata dall’impellente bisogno di uomini, donne e bambini che arrivano su quelle splendide coste esausti e privi del necessario, spesso in bilico tra la vita e la morte.
Religiosi e uomini e donne di buona volontà si sono fatti accanto al bisogno di questi nostri fratelli stranieri, nudi, bagnati, ammalati, affamati ed ma soprattutto in cerca di qualcuno che riconsegni loro la dignità propria dignità di uomini, persa durante la dittatura, la guerra e nel viaggio dentro quei micidiali barconi della morte.
Tante le testimonianze che ci hanno toccato il cuore.
Nel programma Porta a Porta – Speciale Venerdì Santo trasmesso su Rai Uno lo scorso 22 aprile, hanno commosso le parole di un’anziana donna lampedusana.
“Settemila giovani, ottomila giovani su Lampedusa, ma lei pensa siamo su un fazzoletto di terra… gente che siamo, come si dice semplice, viviamo… nella pace… e nella sofferenza. Nella sofferenza e nella pace. E vedere tutto questo, ma cosa ci sta succedendo? Ho vissuto la guerra sei anni e la povertà è una cosa brutta. Una carezza, una parola, non è che per forza uno deve dare, se uno non ce l’ha, ma magari un sorriso… È questo quello che chiedo a tutti, a tutti… a tutti e così eravamo tutti i lampedusani, tutti, tutti, tutti! Perché non era una cosa bella. Io guardo ai vostri visi, penso alle vostre mamme che in questo momento non sanno se siete salvi, se siete vivi o se siete morti. Dott. Vespa, lei doveva vedere questi ragazzi si sono tutti chinati la testa; uno mi ha abbracciato e ha voluto fotografarsi con me, e uno è venuto a baciarmi in testa e mi ha detto ‘grazie mamma! Noi non siamo terroristi, mamma noi vogliamo una vita più bella, più bella’. L’ultimo giorno che se ne sono andati, sono passati di qua: ‘mamma ce ne andiamo’. ‘Hai il numero?’, chiedo io a questi bambini, perché erano ragazzini. ‘Si mamma, guarda!’. Gli faccio io: ‘Buona fortuna’. ‘Si, mamma, grazie!’”.
Un linguaggio semplice e anche un po’ sgrammaticato… ma che testimonianza di amore!
Come anche quella di un uomo che ha seppellito i corpi di alcune vittime di questa fuga disperata, costruendo a mano delle piccole croci di legno e onorando le tombe di quei sconosciuti senza nome con fiori freschi e preghiere.
E questo splendore di testimonianza non si può inventare a tavolino nei salotti del potere, ma è l’inevitabile frutto di un’esperienza viva, di un Amore più grande che si sperimenta su di sé ogni giorno e che ti scoppia dentro al cuore fino a doverlo donare a chiunque, ad ogni figlio di Dio.