Come luce nelle tenebre
di Barbara Falgiani
Nel Frammento Anno XIX numero 1/2021
1321-2021: 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, 700 anni di cammino umano per continuare ad affrontare le selve oscure di ieri e di oggi, 700 anni di amicizia con chi, umilmente, ci racconta un’esperienza di Grazia. Sì, perché di questo si tratta: di un cammino da intraprendere, di una condizione umana che è la stessa di e da sempre, di una libertà da giocare dalla parte di una luce che c’è e si mostra alla soglia del nostro vivere, spesso duro, inquieto, battuto nella carne fino al dolore, di una Grazia che ci viene incontro gratuitamente. Dante è amico per questo; perché si mette davanti a noi in questo cammino raccontandoci cosa gli è successo, permettendo a ciascuno di paragonarsi, di ritrovarsi, di lasciarsi aiutare. E lo fa a partire dalla sua esperienza, umana, umanissima con la possibilità di rintracciare la nostra (se così non fosse, sarebbe uno dei tanti letterati che più o meno appassionatamente abbiamo studiato o studiamo ma che non c’entrano con la nostra vicenda umana).
La storia potrebbe essere una di quelle dei nostri giorni: un ragazzo, Dante, si innamora di una sua coetanea, Beatrice, la figlia di Folco Portinari già da lui incontrata quando erano bambini. Un giorno, accade un imprevisto, un fatto inaspettato seppur desiderato e atteso: girando per Firenze, Beatrice semplicemente appare (termine usato più volte nei primi capitoli della Vita Nuova), lo guarda, gli sorride (a quel tempo significava ricevere la sua cortesia, la sua “dichiarazione” ad iniziare un rapporto). Un gioco di sguardi che cambia la vita di Dante, che lo fa esplodere in una gioia indicibile, che lo fa fiorire in una novità di vita, in un nuovo inizio, in una “vita nuova”, appunto, tanto da investire di carità e di amore anche chi gli sta accanto. L’incontro con questa donna è come un miracolo dove è visibile il Volto di Dio: attraverso la carne della donna amata, viene raggiunto dal Divino. Lui stesso scriverà così: “Par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare” (Dante Alighieri, Tanto gentile e tanto onesta pare). Ma Beatrice, nel bel mezzo di questa vita rinnovata, muore, e a Dante crolla tutto; si trova di fronte ad un bivio (e da sempre, più o meno drammaticamente, se siamo leali con noi stessi, ci riguarda tutti; oggi, continuamente, in tempo di pandemia, battuti profondamente nella carne): o la vita è una “fregatura” (e un altro amico come Leopardi ce la fa sentire in tutta la sua forza, restando comunque sempre vivo in questa domanda: “O natura, o natura, perché di tanto inganni i figli tuoi? Perché non rendi poi quel che prometti allor?”) o c’è qualcosa da capire che ha a che fare con quella gioia immensa e quel dolore straziante. Da questo istante, nel cuore di quel ragazzo prorompe la domanda sul senso di questa vita; tutto ciò che era accaduto (e che accade anche a noi nel vivere i nostri giorni) desidera che sia compreso nella sua verità per arrivare a comprendere sé e il senso di tutto.
Così Dante ci dona la Divina Commedia, ci racconta ciò che ha visto, di come la vita si può salvare anche dentro un dolore immenso, dentro un’inquietudine che ci attanaglia e ci ammala, mossi da una domanda di senso che alberga nel nostro cuore e che esige una risposta credibile, tangibile, incontrabile dentro tutto ed ogni. Non facciamo fatica, allora, a ritrovarci dentro quei primi versi che, anche senza aver studiato chissà quanto, abbiamo ascoltato almeno una volta: “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura”; dice nostra, perché parla di quella vita cha a che fare con me, con te, dice oscura perché spesso ci ritroviamo avvolti dalle tenebre (l’amarezza, la delusione, la paura, il dolore, la morte…). Un’esperienza semplice da capire è quella di pensare di essere, ad esempio, in una stanza buia dove, anche se uno non vuole, c’è il rischio di farsi male, di sbattere con gli oggetti che ci sono, di far male anche ad altri. Ed è altrettanto esperienza semplice comprendere che, in una condizione del genere, tutto il nostro desiderio sarebbe quello di vedere una luce, anche piccola, che possa entrare in quel buio. “Nella notte di Natale ascoltiamo le parole del profeta Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia». La vera gioia non è l’eliminazione della notte, delle condizioni e delle circostanze drammatiche, ma è la presenza di una luce dentro le tenebre, che rifulge nelle tenebre, più forte delle tenebre. È dentro la notte che sorge il giorno della presenza di Cristo, è nelle tenebre che risplende la luce della presenza di Gesù” (Nicolino Pompei, …perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena). È questa l’esperienza di Dante, è questa l’esperienza desiderata dal cuore di ciascuno di noi: una presenza che ci viene incontro dentro le tenebre (magari anche più fitte che mai: Dante mentre intravede la luce sul colle per uscire dalla selva, incontra tre belve che lo spingono sempre più giù) a cui poter gridare tutto il nostro bisogno di essere salvati. Proprio questo grido prorompe sulla bocca di Dante personaggio (come prime parole pronunciate da protagonista della sua opera) quando intravede uno davanti a lui (anche senza sapere che era Virgilio): “Miserere di me!”, “O tu, chiunque tu sia, abbi pietà di me!”. Scrive in modo struggente di questo momento: “dinanzi a li occhi/ mi si fu offerto”, ‘offerto’, quindi grazia, gratis, uno che prende l’iniziativa senza che io lo chieda, una compagnia che ci viene incontro per fare con noi il cammino altrimenti impossibile da compiere da soli. Nel Vangelo possiamo fare un incontro simile attraverso il cieco Bartimeo che ogni giorno sedeva lungo la strada a mendicare. “Ma un giorno passò Gesù. Alla sola percezione della presenza di Gesù, Bartimeo cominciò a gridare senza alcun ritegno e in maniera sempre crescente: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». (…) E Gesù, si fermò e lo chiamò a sé” (Nicolino Pompei, Tutti ti cercano).
Da questa posizione umile, dal riconoscersi cieco, bisognoso e da questo presentimento di bene intuito in quella presenza a cui gridare tutto il proprio bisogno, Dante spalanca la strada ad un cammino che ha a tema non l’aldilà ma l’aldiquà, il suo e il mio cuore, il suo e il mio desiderio di essere felici. E allora sì, oggi, dopo 700 anni, continuiamo il cammino in compagnia di questo amico perché, come lui stesso scrive, si possa allontanare da noi viventi, durante la nostra esistenza, lo stato di miseria, per esser condotti alla salvezza (cfr. Epistola XIII, 15).