Meditazioni 28 marzo 2011
… La preghiera del fariseo, dietro l’apparente devozione, è una preghiera, oserei dire, senza Dio, senza il riconoscimento di Dio. Il riferimento a Dio è pretesto e copertura di un io ricco e gonfio di se stesso, che usa del rapporto con Dio per la propria autoesaltazione. L’uomo che c’è e si nasconde dietro questa preghiera è un uomo che non aspetta nulla da Dio, non è un mendicante di Dio e non ha nulla da chiedere. Usa della preghiera solo per confermare se stesso come misura, per far mostra di sé, in un continuo tentativo di autoesaltazione. Ed è così gonfio e preso dalla sua alterigia da provare solo disprezzo degli altri e vivere nella contrapposizione con gli altri, in cui addirittura si sente esaltato. Invece il pubblicano, l’esattore del fisco, evidentemente un peccatore, sta a distanza perché è spaesato, perché sente la sproporzione, ha la coscienza della sua sproporzione. Sente tutta la sua mancanza, la sua fragilità, il suo tradimento e tutto il bisogno di perdono. È umiliato dal dolore di questo tradimento e supplica battendosi il petto con la formula istintiva del peccatore che non sa dire bene i suoi peccati, dicendo: mio Dio abbi pietà di me peccatore. È la preghiera del povero che è tutto proteso a rimettere la propria vita a Dio. Sente dolore e quindi documenta di essere in una tensione e apertura alla verità di sé, che lo porta a piegarsi mendicante della Misericordia, in cui solo sente la possibilità di essere riammesso alla vita. È l’atteggiamento richiamato giusto da Gesù perché il solo adeguato ad aspettare e ricevere tutto da Dio… (Nicolino Pompei)
… Invocazione allo Spirito Santo
All’Angelus di ieri, il Santo Padre ha espresso nuovamente la sua preoccupazione per le popolazioni della Libia, dell’intera Regione nordafricana e del Medio Oriente, rinnovando il suo accorato appello perché si sospenda l’uso delle armi e si avviino immediati tentativi di dialogo nella ricerca di una soluzione giusta e fraterna delle varie situazioni problematiche sussistenti. Ci uniamo alla preghiera del Papa per queste popolazioni e affidiamo a Maria Santissima ciascuno di noi e Nicolino, pregando per tutte le sue intenzioni.
Nel primo mistero del dolore contempliamo l’agonia di Gesù nel Getsemani
Gesù è là, solo nel giardino che odora di ulivo. Si è gettato a terra e ha allargato le braccia per unire i due estremi, distanti un abisso, della disperazione e della speranza. Getsemani, ora della paura e dell’angoscia, del tristezza e del sudore di sangue, degli amici che si addormentano e non comprendono. Getsemani, ora della tentazione suprema: riprendersi subito la gloria divina di Figlio e abbandonare la causa dell’uomo. Getsemani, ora della preghiera intensa e del dialogo filiale, dell’accettazione, nell’amore, del calice amaro. Per l’agonia del Getsemani si riapre – testimoni gli ulivi – la porta dell’antico giardino e trabocca di speranza il calice della passione dell’uomo (Giovanni Paolo II, Via Crucis al Colosseo 1991).
Nel secondo mistero del dolore contempliamo Gesù che viene flagellato
Gesù è innocente. Pilato l’ha compreso. Sa che i sommi sacerdoti lo hanno consegnato per invidia. Ma non sa spiegarsi in che modo sia re quell’uomo povero e mite che gli sta davanti. È pieno di stupore. Vorrebbe liberare Gesù. Ma incalza il grido della folla sobillata: “Crocifiggilo!”. Urlo di tutti i tempi, in cui ognuno riconosce la propria voce. Invidia dei sacerdoti, ostilità del popolo manipolato, viltà di un politico che non assume la sua responsabilità: così Gesù viene fatto flagellare e consegnato alla morte (Ibi).
Nel terzo mistero del dolore contempliamo Gesù che viene coronato di spine
Incoronato del dolore dell’umanità, sferzato dal peccato del mondo, Gesù, silenziosamente, accetta il dileggio e lo scherno. Nell’incomprensione più assoluta, egli è re di verità, quella verità che annulla l’illusione di un Messia potente e vendicatore e lo rivela servo della vita, come sta scritto: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire… egli si è caricato delle nostre sofferenze, e si è addossato i nostri dolori”. Re perché serve, re perché assume il limite della condizione umana e le infonde un significato di speranza e di salvezza. In lui, ciò che il mondo ritiene stolto, debole, ignobile, non può essere ormai più disprezzato: è sapienza e potenza di Dio (Ibi).
Nel quarto mistero del dolore contempliamo Gesù che sale al Calvario portando la croce
I soldati si sono presi burla di lui. Ma ora basta con il gioco. È stato condannato a morte: si esegua la sentenza. Gli ridanno le vesti, lo caricano della croce. Ora Gesù è veramente il maestro che precede i suoi discepoli, il sacerdote che sale l’altare del sacrificio, l’agnello che porta su di sé il peccato del mondo. Con la croce sulle spalle Gesù va “fuori”: come proscritto esce dalle mura della città, come capro espiatorio allontanato dall’accampamento, come il figlio della parabola cacciato fuori dalla vigna e ucciso. Con la croce, fuori. Allora, dietro Gesù, comincia il grande ritorno dell’uomo nella casa del Padre. Con la croce, fuori. Camminando verso il Golgota, Gesù indica all’uomo smarrito la via della salvezza. Con la croce, fuori. Gesù è là, in attesa dell’ultimo uomo, per portare con lui il peso della vita (Ibi).
Nel quinto mistero del dolore contempliamo Gesù che muore in croce
Un duplice, forte grido nella morte di Cristo. Il primo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Grido misterioso, segno della sofferenza atroce, voce di speranza contro ogni speranza, canto di vittoria sulle potenze del male. Gesù, il figlio fedele, schiacciato da angoscia mortale, tentato di sfiducia, proclama dalla croce, come già tra gli ulivi, la sua adesione al progetto salvifico del Padre. Il secondo: “Gesù, dando un forte grido, spirò”. Grido possente, invocazione alla vita che gli viene strappata, gemito di ora di parto, vagito immenso della nuova creazione nata dalla morte di Cristo. Gesù, l’amico fedele, pur tradito rinnegato deriso, conferma, come già nell’ultima Cena, il suo amore per l’uomo, perché “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Ibi).