Meditazioni 2 aprile 2012
“Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me, … perché senza di me – si potrebbe anche tradurre: fuori di me – non potete far nulla” (Gv 15,4) […] Incarnandosi, Cristo stesso è venuto in questo mondo per essere il nostro fondamento. In ogni necessità e aridità, Egli è la sorgente che dona l’acqua della vita che ci nutre e ci fortifica. Egli stesso porta su di sé ogni peccato, paura e sofferenza e, in fine, ci purifica e ci trasforma misteriosamente in tralci buoni che danno vino buono. In questi momenti di bisogno, a volte ci sentiamo come finiti sotto un torchio, come i grappoli d’uva che vengono pigiati completamente. Ma sappiamo che, uniti a Cristo, diventiamo vino maturo. Dio sa trasformare in amore anche le cose pesanti e opprimenti nella nostra vita. Importante è che “rimaniamo” nella vite, in Cristo. […] Nel nostro tempo di inquietudine e di qualunquismo, in cui così tanta gente perde l’orientamento e il sostegno; in cui la fedeltà dell’amore nel matrimonio e nell’amicizia è diventata così fragile e di breve durata; in cui vogliamo gridare, nel nostro bisogno, come i discepoli di Emmaus: “Signore, resta con noi, perché si fa sera (cfr Lc 24,29), sì, è buio intorno a noi!”; in questo tempo il Signore risorto ci offre un rifugio, un luogo di luce, di speranza e fiducia, di pace e sicurezza. Dove la siccità e la morte minacciano i tralci, là in Cristo c’è futuro, vita e gioia, là c’è sempre perdono e nuovo inizio, trasformazione entrando nel suo amore […] Con la Chiesa e nella Chiesa possiamo annunciare a tutti gli uomini che Cristo è la fonte della vita, che Egli è presente, che Egli è la grande realtà che cerchiamo e a cui aneliamo. Egli dona se stesso e così ci dona Dio, la felicità, l’amore. Chi crede in Cristo, ha un futuro. Perché Dio non vuole ciò che è arido, morto, artificiale, che alla fine è gettato via, ma vuole ciò che è fecondo e vivo, la vita in abbondanza, e Lui ci dà la vita in abbondanza (Benedetto XVI).
…Invocazione allo Spirito Santo
Nella grazia tutta particolare di questa Settimana Santa, affidiamo a Maria Santissima ciascuno di noi e Nicolino, pregando per tutte le sue intenzioni.
Nel primo mistero del dolore contempliamo l’agonia di Gesù nel Getsemani
Gesù è là, solo nel giardino che odora di ulivo. Si è gettato a terra e ha allargato le braccia per unire i due estremi, distanti un abisso, della disperazione e della speranza. Getsemani, ora della paura e dell’angoscia, del tristezza e del sudore di sangue, degli amici che si addormentano e non comprendono. Getsemani, ora della tentazione suprema: riprendersi subito la gloria divina di Figlio e abbandonare la causa dell’uomo. Getsemani, ora della preghiera intensa e del dialogo filiale, dell’accettazione, nell’amore, del calice amaro. Per l’agonia del Getsemani si riapre – testimoni gli ulivi – la porta dell’antico giardino e trabocca di speranza il calice della passione dell’uomo (Giovanni Paolo II, Via Crucis al Colosseo 1991).
Nel secondo mistero del dolore contempliamo Gesù che viene flagellato
Gesù è innocente. Pilato l’ha compreso. Sa che i sommi sacerdoti lo hanno consegnato per invidia. Ma non sa spiegarsi in che modo sia re quell’uomo povero e mite che gli sta davanti. È pieno di stupore. Vorrebbe liberare Gesù. Ma incalza il grido della folla sobillata: “Crocifiggilo!”. Urlo di tutti i tempi, in cui ognuno riconosce la propria voce. Invidia dei sacerdoti, ostilità del popolo manipolato, viltà di un politico che non assume la sua responsabilità: così Gesù viene fatto flagellare e consegnato alla morte (Ibi).
Nel terzo mistero del dolore contempliamo Gesù che viene coronato di spine
Incoronato del dolore dell’umanità, sferzato dal peccato del mondo, Gesù, silenziosamente, accetta il dileggio e lo scherno. Nell’incomprensione più assoluta, egli è re di verità, quella verità che annulla l’illusione di un Messia potente e vendicatore e lo rivela servo della vita, come sta scritto: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire… egli si è caricato delle nostre sofferenze, e si è addossato i nostri dolori”. Re perché serve, re perché assume il limite della condizione umana e le infonde un significato di speranza e di salvezza. In lui, ciò che il mondo ritiene stolto, debole, ignobile, non può essere ormai più disprezzato: è sapienza e potenza di Dio (Ibi).
Nel quarto mistero del dolore contempliamo Gesù che sale al Calvario portando la croce
I soldati si sono presi burla di lui. Ma ora basta con il gioco. È stato condannato a morte: si esegua la sentenza. Gli ridanno le vesti, lo caricano della croce. Ora Gesù è veramente il maestro che precede i suoi discepoli, il sacerdote che sale l’altare del sacrificio, l’agnello che porta su di sé il peccato del mondo. Con la croce sulle spalle Gesù va “fuori”: come proscritto esce dalle mura della città, come capro espiatorio allontanato dall’accampamento, come il figlio della parabola cacciato fuori dalla vigna e ucciso. Con la croce, fuori. Allora, dietro Gesù, comincia il grande ritorno dell’uomo nella casa del Padre. Con la croce, fuori. Camminando verso il Golgota, Gesù indica all’uomo smarrito la via della salvezza. Con la croce, fuori. Gesù è là, in attesa dell’ultimo uomo, per portare con lui il peso della vita (Ibi).
Nel quinto mistero del dolore contempliamo Gesù che muore in croce
Un duplice, forte grido nella morte di Cristo. Il primo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Grido misterioso, segno della sofferenza atroce, voce di speranza contro ogni speranza, canto di vittoria sulle potenze del male. Gesù, il figlio fedele, schiacciato da angoscia mortale, tentato di sfiducia, proclama dalla croce, come già tra gli ulivi, la sua adesione al progetto salvifico del Padre. Il secondo: “Gesù, dando un forte grido, spirò”. Grido possente, invocazione alla vita che gli viene strappata, gemito di ora di parto, vagito immenso della nuova creazione nata dalla morte di Cristo. Gesù, l’amico fedele, pur tradito rinnegato deriso, conferma, come già nell’ultima Cena, il suo amore per l’uomo, perché “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Ibi).